William Shakespear

La Tempesta
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MIRANDA.

    Ahimè che pena!

                          FERDINANDO.

                   Sì, sulla mia fede!
    E insiem con lui tutta la Corte e il Duca
    di Milano col suo nobile figlio.
                            PROSPERO

                                                        a parte.

    Il Duca di Milano con la sua
    più nobile figliuola ti potrebbe
    smentir, se lo credesse. A prima vista
    si son scambiati i loro sguardi. O dolce
    Ariel, sarai libero per questo!

                                                   A Ferdinando.

    Signore, una parola, con i vostri
    discorsi io temo non vi siate fatto
    qualche danno. Ascoltate: una parola.

                            MIRANDA

                                                          da sè.

    Perchè mio padre sì scortesemente
    gli parla? È questo il terzo essere umano
    ch'io vidi mai, ma il primo per il quale
    io mi sospiri. La pietà sospinga
    mio padre dalla mia parte.

                          FERDINANDO.

                              Se siete
    vergine ancora e il vostro cor non sia
    impegnato, di Napoli regina
    io vi farò!

                           PROSPERO.
               Piano, signore, ancora
    una parola!
                                                        A parte.

    Entrambi sono presi
    da uno stesso potere, ma bisogna
    questi rapidi eventi ritardare
    perchè una troppo facile vittoria
    non renda il premio troppo lieve.

                                                   A Ferdinando.

    Ancora
    una parola: ascoltami, t'impongo
    di seguirmi. Tu, certo, usurpi un nome
    che non è il tuo: come una spia venisti
    in quest'isola e tenti d'usurparla
    a me che sono il suo sovrano.

                          FERDINANDO.

                                 No!
    come è vero ch'io sono un uomo!

                            MIRANDA.

                                   Nulla
    di male può abitare un simil tempio.
    Se dimora sì bella avrà il cattivo
    spirito, i buoni spirti cercheranno
    di abitarla con lui.

                           PROSPERO.

                         Seguimi!

                                                      A Miranda.

                                 Smetti
    di chieder grazia! È un traditore.

                                                   A Ferdinando.

                                      Vieni!
    Il collo ai piedi t'incatenerò,
    l'acqua del mar sarà la tua bevanda,
    conchiglie d'acqua dolce avrai per cibo
    e disseccate radiche ed i gusci
    delle ghiande. Su, vieni!

                          FERDINANDO.

                             No! Che prima
    di subir tale trattamento voglio
    aspettare un nemico più possente.

                  Sfodera la spada e resta immobile per incanto.

                            MIRANDA.

    O caro padre nol tentar con prova
    troppo imprudente: è nobile e non è
    timido!

                           PROSPERO.

           Cosa? Il mio piede diventa
    mio maestro?

                                                   A Ferdinando.

                 Rinfodera la spada,
    traditore che tenti di colpire
    ma che non osi, tanto la certezza
    di tua colpa ti aggrava. Smetti dunque
    di stare in guardia! Con la mia bacchetta
    io posso disarmarti e far cadere
    la tua spada.

                            MIRANDA.

                 Vi supplico, o mio padre!

                           PROSPERO.

    Via di qua, non appenderti alle mie
    vesti.

                            MIRANDA.

          Pietà, signore, io sarò il suo
    ostaggio!

                           PROSPERO.

             Basta! Ancora una parola
    e mi cruccerò teco, per non dire
    che ti odierò. Per simile impostore
    guarda quale avvocato! Zitta! Credi
    forse che non ci sieno altre figure
    come questa, perchè non ne vedesti
    all'infuori di Calibàno e della
    sua? Folle bimba, al paragone d'altri
    uomini, Calibàno egli è; son tutti
    angeli al suo confronto.

                            MIRANDA.

                            Umili molto
    son dunque i sentimenti miei: non cerco
    di vederne migliori.

                           PROSPERO.

                        Or dunque, andiamo.
    Obbedisci! I tuoi nervi son di nuovo
    in infanzia e non hanno più vigore.

                          FERDINANDO.

    Ed infatti è così! Tutti i pensieri
    come in un sogno son paralizzati.
    La morte di mio padre, la stanchezza
    ch'io sento, e quella perdita di tutti
    gli amici miei, per fino le minacce
    di quest'uomo a cui sono sottomesso,
    saranno lievi cose a me se dalla
    mia prigione potrò solo una volta
    al giorno, contemplar questa fanciulla.
    La libertà tenga ogni più riposto
    angolo della terra: in tal prigione
    avrò spazio bastante.

                           PROSPERO.

                                                          da sè.

                          Bene!

                                                   A Ferdinando.

                                Andiamo!

                                                          Da sè.

    Buon Ariele, ben oprasti!

                                                   A Ferdinando.

                              Andiamo!

                                                      Ad Ariele.

    Ascolta quel che devi fare.
                            MIRANDA.

                                Abbiate
    coraggio: assai migliore è il padre mio
    di quel che il suo parlar non lo dimostri.
    Quello che ha fatto è fuor del suo costume.

                            PROSPERO

                                                      ad Ariele.

    Tu libero sarai siccome il vento
    delle montagne, ma il comando mio
    in ogni punto devi esattamente
    adempiere!

                            ARIELE.

              Alla lettera!

                            PROSPERO

                                                      A Miranda.

                            Su, via
    seguimi e non parlarmi in suo favore.




                         ATTO SECONDO.


                          SCENA PRIMA.

                   Un'altra parte dell'isola.

         Entrano ALONZO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
                  FRANCESCO, ADRIANO, ARIELE.


                            GONZALO.

    Ve ne prego, o signor, siate contento:
    per voi come per noi c'è ben ragione
    d'essere lieti: poi che di gran lunga
    la salvezza ogni perdita sorpassa.
    È comune il dolor nostro: ogni giorno
    la moglie di un marino, l'armatore
    di un mercantile ed il mercante stesso
    hanno un egual dolore. In quanto al nostro
    miracolo--che tale è l'esser salvi,--
    fra milïoni d'uomini ben pochi
    posson parlare come noi. Ponete
    dunque sulla bilancia, o mio buon sire,
    la tristezza e il piacere.

                            ALONZO.

                              In grazia: basta!

                          SEBASTIANO.

Riceve le consolazioni come una minestra fredda.

                            ANTONIO.

Il consolatore non lo lascerà per così poco.

                          SEBASTIANO.

Guardatelo: sta caricando l'orologio della sua intelligenza.
Fra poco, suonerà.

                            GONZALO.

Sire....

                          SEBASTIANO.

E una: parla.

                            GONZALO.

    Quando ogni afflizion che si presenta
    in tal maniera, al suo ospite apporta....

                          SEBASTIANO.

Un dollaro.

                            GONZALO.

Un dolore: è giusto. Avete parlato meglio di quel che non
credevate.

                          SEBASTIANO.

E voi lo avete interpretato meglio di quello che non mi
fossi proposto.

                            GONZALO.

    Ed è perciò, signore mio....

                          SEBASTIANO.

Uff! Come è prodigo della sua lingua!

                            ALONZO.

                                 Ti prego,
    risparmiami.

                            GONZALO.

                Ho finito. Ma pertanto....

                          SEBASTIANO.

Continuerà a parlare.

                            ANTONIO.

Scommettiamo: chi gracchierà prima, lui o Adriano?

                          SEBASTIANO.

Sarà il vecchio gallo.

                            ANTONIO.

Sarà il galletto.
                          SEBASTIANO.

Accettato. E la posta?

                            ANTONIO.

Una risata.

                          SEBASTIANO.

Tengo.

                            ADRIANO.

Se bene quest'isola sembri deserta....

                          SEBASTIANO.

Ah! ah! ah! ah! -- Eccovi pagato.

                            ADRIANO.

.... inabitabile e quasi inaccessibile....

                          SEBASTIANO.

Pure....

                            ADRIANO.

.... pure....

                            ANTONIO.

Non poteva tralasciarlo.

                            ADRIANO.

.... pure sembra che debba essere di clima leggero, sottile
e di delicata temperanza.

                            ANTONIO.

Temperanza era infatti una delicata donzella.

                          SEBASTIANO.

Già: e sottile anche, come l'ha saggiamente annunciato.

                            ADRIANO.

L'aria alita sopra di noi molto dolcemente.

                          SEBASTIANO.

Come se avesse polmoni e--per di più--marci.

                            ANTONIO.

O come se fosse profumata da una palude.

                            GONZALO.

Qui c'è ogni cosa giovevole alla vita.

                            ANTONIO.

Giusto: salvo però la maniera di vivere.

                          SEBASTIANO.

Di questa ce n'è poco o punto.

                            GONZALO.

Come l'erba apparisce folta e rigogliosa! E come è verde!

                            ANTONIO.

Il suolo però è gialliccio.

                          SEBASTIANO.

Con una punta di verde.

                            ANTONIO.

Non si è sbagliato di molto.

                          SEBASTIANO.

No: non fa che sbagliare intieramente la verità.

                            GONZALO.

Ma la rarità di tutto ciò, che è quasi oltre ogni
credere....

                          SEBASTIANO.

Come tante altre notorie rarità....

                            GONZALO.

.... è che le nostre vesti, bagnate dal mare come furono,
hanno non ostante conservato la loro freschezza e il loro
splendore e sono più tosto rinnovate che macchiate
dall'acqua salata.

                            ANTONIO.

Ma se una delle sue tasche potesse parlare, non direbbe
forse che mentisce?

                          SEBASTIANO.

Già: o per lo meno s'intascherebbe molto falsamente la sua
affermazione.

                            GONZALO.

Mi sembra che le nostre vesti siano così fresche come il
giorno che le indossammo per la prima volta, in Africa, al
matrimonio della figlia del Re, la gentile Claribella, col
Re di Tunisi.

                          SEBASTIANO.

Fu un bel matrimonio, che ci ha profittato molto nel
ritorno!

                            ADRIANO.

Tunisi non era mai stata onorata, prima di adesso, con un
modello di perfezione simile alla sua Regina.

                            GONZALO.

No: dal tempo della vedova Didone.

                            ANTONIO.

Vedova? La peste a lei! Come c'entra questa vedova? La
vedova Didone!

                          SEBASTIANO.

E così? Se egli avesse anche detto il "Vedovo Enea", Signore
Iddio, come ve la prendete, per questo!

                            ADRIANO.

Vedova Didone, avete detto? Ora mi ci fate pensare: ella era
di Cartagine, non di Tunisi.

                            GONZALO.

Questa Tunisi, o signore, era un tempo Cartagine.

                            ADRIANO.

Cartagine!

                            GONZALO.

Ve lo assicuro: Cartagine.

                            ANTONIO.

La sua parola val più di un'arpa miracolosa.

                          SEBASTIANO.

Egli ha innalzato le muraglie e le case tutte insieme.

                            ANTONIO.

Che cosa impossibile sta ora per rendere facile?

                          SEBASTIANO.

Suppongo che si porterà via quest'isola in tasca e che la
darà a suo figlio come una mela.

                            ANTONIO.

E che ne butterà i semi in mare per far nascere altre isole!

                            ALONZO.

Che c'è?

                            ANTONIO.

Arriva in buon punto.

                            GONZALO.

Sire, dicevamo che le nostre vesti sono fresche come quando
eravamo a Tunisi, per il matrimonio di vostra figlia, ora
regina.

                            ANTONIO.

E la più rara che sia mai veduta là.

                          SEBASTIANO.

Eccettuata, vi prego, la vedova Didone.

                            ANTONIO.

O la vedova Didone! Già: vedova Didone!

                            GONZALO.

Non è forse, sire, il mio giustacuore fresco come il primo
giorno che lo indossai? Intendo, sotto un certo punto di
vista....

                            ANTONIO.

Ecco un "punto di vista" pescato opportunamente.

                            GONZALO.

.... quando lo indossai al matrimonio di vostra figlia?

                            ALONZO.

    M'impinzate le orecchie con parole
    oltre la fame dei miei sensi. Il cielo
    volesse ch'io mia figlia non avessi
    maritato costà: chè nel ritorno
    ho perduto mio figlio e se non erro,
    ora che dall'Italia ella è sì lunge,
    io non potrò più rivederla. O erede
    di Milano e di Napoli, di quale
    strano pesce sarai stato pastura?

                           FRANCESCO.

    Sire, forse egli è vivo. Io l'ho veduto
    domare l'onde e cavalcarne il dorso.
    Egli sottometteva l'acque e d'ambo
    i lati respingea quei loro attacchi
    nemici e le più aspre ondate contro
    di lui sospinte a sè stringea. L'ardita
    fronte oltre i flutti irosi sollevando
    con buone braccia in vigorosi colpi
    remigava così verso la costa
    che, dal flutto minata, reclinava
    sopra lui, quasi ad aiutarlo. Salvo
    giunse a terra.

                            ALONZO.

                   No, no, perito è certo.

                          SEBASTIANO.

    Sire, potete ringraziar voi stesso
    per questa grande perdita. L'Europa
    favorir non voleste con la figlia
    vostra, che preferiste abbandonare
    a un africano e quivi ella è bandita
    dai vostri occhi che giustamente ormai
    lacrime versan di rimpianto.

                            ALONZO.

                                Basta,
    ti prego.

                          SEBASTIANO.

             Supplicato foste e tutti
    c'inginocchiammo innanzi a voi con ogni
    genere di preghiere e quella stessa
    bell'anima divisa fra disgusto
    e obedienza, esitò a lungo incerta
    da qual lato propendere. Perduto
    per sempre abbiamo vostro figlio, io temo,
    e Napoli e Milano avran per questa
    avventura più vedove che noi,
    uomini non rechiamo a consolarle.
    La colpa è vostra.

                            ALONZO.

                      Ed è la mia più cara
    perdita!

                            GONZALO.

            O Sebastiano, o mio signore,
    il vero che narrate manca forse
    di gentilezza e di opportunità.
    Irritate la piaga quando invece
    voi dovreste arrecar l'impiastro.

                          SEBASTIANO.

                                     È giusto.

                            ANTONIO.

    E chirurgico molto.

                            GONZALO.

                       O mio buon sire
    è tempo nero per noi tutti, quando
    siete rannuvolato.

                          SEBASTIANO.

                      Tempo nero.

                            ANTONIO.

    Nerissimo.

                            GONZALO.

              E dovessi io coltivare
    quest'isola, o signore....

                            ANTONIO.

                              Pianterebbe
    l'ortica.

                          SEBASTIANO.

             O pur la malva.

                            GONZALO.

                            S'io mi fossi
    il Re, cosa farei?

                          SEBASTIANO.

                      Vi provereste
    a non ubriacarvi per mancanza
    di vino.

                            GONZALO.

            Nel mio Stato ordinerei
    le cose alla rovescia: non un nome
    di magistrato ammetterei; commerci
    d'ogni genere esclusi; ignote tutte
    le lettere; ricchezza, povertà,
    usi di servitù nessuno; niente
    contratti, eredità, siepi, poderi
    chiusi, terreni coltivati e vigne;
    proibito l'uso di metalli, d'olio,
    di frumento, di vino; alcun lavoro:
    gli uomini tutti in ozio ed anche tutte
    le donne, ma innocenti e pure; alcuna
    supremazia regale....

                          SEBASTIANO.

                         Ma vorrebbe
    essere il Re!

                            ANTONIO.

    La fine della sua repubblica si dimentica del
    principio!

                            GONZALO.

              Senza sudori e senza
    sforzi tutte le cose produrrebbe
    la Natura; vorrei fossero ignoti
    il tradimento, la bassezza e l'uso
    di spada, di coltello, di fucile,
    di picca e d'ogni altra arma; la benigna
    Natura produrrebbe in abbondanza
    quanto basti a nutrire il popol mio!

                          SEBASTIANO.

    E nessun matrimonio fra i suoi sudditi.

                            ANTONIO.

    Nessuno: tutti in ozio, puttane e farabutti.

                            GONZALO.

    E vorrei governar, sire, con tanta
    perfezione, che l'età dell'oro
    sarebbe sorpassata.

                          SEBASTIANO.

                        Salva sia
    Sua Maestà!

                            ANTONIO.

               Evviva il Re Gonzalo!

                            GONZALO.

E--mi ascoltate, o sire....

                            ALONZO.

Basta, ti prego; le tue parole non mi dicono niente.

                            GONZALO.

Credo facilmente a Vostra Altezza e se le ho dette è stato
per divertire questi gentiluomini i quali hanno una milza
così sensibile, che si mettono a ridere per la minima
sciocchezza.

                            ANTONIO.

Questa volta abbiamo riso di voi.

                            GONZALO.

Il quale io, in questo genere di allegra pazzia sono un
niente in confronto a voi. Così potete continuare e ridere
ancora di nulla.

                            ANTONIO.

Che colpo ci avrebbe dato!

                          SEBASTIANO.

Se non fosse caduto come uno straccio.

                            GONZALO.

Voi siete gentiluomini di fegato, capaci di tirar giù la
luna dalla sua sfera, se stesse cinque giorni senza
cambiare.

                                      Entra ARIELE invisibile.
                                      Si ode una musica solenne.

                          SEBASTIANO.

Lo faremmo infatti e ci andremmo a caccia servendocene come
lanterna.

                            ANTONIO.

Su via, mio buon signore, non vi arrabbiate.

                            GONZALO.

O no, ve lo garantisco io, non comprometterei la mia serietà
per così poco. Volete ridere di me mentre dormo? Mi sento
molto stanco.

                            ANTONIO.

Andate a dormire e cercate di sentirci.

                               Tutti si addormentano, eccettuati
                               ALONZO, SEBASTIANO e ANTONIO.

                            ALONZO.

    Come sì presto addormentati? Ahi fosse
    possibile che gli occhi miei con loro
    si chiudessero sopra i miei pensieri!
    Sento che a ciò sono proclivi.

                          SEBASTIANO.

                                  Sire,
    non ricusate questa offerta, il sonno
    ben di rado il dolor visita e quando
    lo faccia, è di conforto.

                            ANTONIO.

                             Ambo, o signore,
    vi guarderemo mentre riposate
    e veglieremo alla salvezza vostra.

                            ALONZO.

    Io vi ringrazio. Oh sonno portentoso!

                                           ALONZO si addormenta.
                                           Exit ARIELE.

                          SEBASTIANO.

    Quale strano sopor tutti li tiene!

                            ANTONIO.

    Forse è il clima.

                          SEBASTIANO.

                     Perchè, se gli occhi vostri
    non si aggravan così? Non sento affatto
    bisogno di dormire.

                            ANTONIO.

                       Ed io nè meno.
    Son vigili i miei spiriti. Assopiti
    essi sono nel sonno, tutti insieme
    quasi per un accordo e son piombati
    a terra come fulminati! Quale
    buona fortuna, o Sebastiano. Quale
    buona fortuna! Ma non più, mi sembra
    però di legger sul tuo volto, quello
    che vorresti: l'occasion ti parla
    e la mia ardente fantasia già scorge
    una corona alla tua fronte....

                          SEBASTIANO.

                                  Cosa?
    Sei tu sveglio?

                            ANTONIO.

    Non odi il mio parlare?

                          SEBASTIANO.

    L'odo: ma questo tuo parlare è certo
    d'uomo assopito e tu nel sogno parli.
    Cosa dicevi? Assai strano riposo,
    dormir con gli occhi aperti! Tu ti muovi,
    e stai in piedi e discorri e pure dormi
    profondamente.

                            ANTONIO.

                  Nobil Sebastiano,
    tu, la fortuna tua lasci dormire
    o morire più tosto! E chiudi gli occhi
    pur essendo ben sveglio.

                          SEBASTIANO.

                            È certo, russi
    distintamente e v'è nel tuo russare
    pur qualche senso.

                            ANTONIO.

                      Più che mio costume
    io son serio e voi pur lo diverrete,
    se mi darete ascolto, triplicato,
    in questo caso.

                          SEBASTIANO.

                   Io sono un'acqua ferma.

                            ANTONIO.

    E a scorrer io v'insegnerò.
                          SEBASTIANO.

                               Sì, fatelo:
    un'indolenza ereditaria, forse
    m'indurrà a rifluire.

                            ANTONIO.

                          O se sapeste
    quanto questo proposito voi stesso
    pur irridendo accarezzate e quanto
    più lo spogliate e più lo fate bello!
    Gli uomini del riflusso, veramente
    sono vicini, molto spesso, al fondo
    per il loro timore e per la loro
    indolenza.

                          SEBASTIANO.

              Ti prego, spiega meglio.
    La durezza del tuo sguardo e del tuo
    volto proclama un non so qual pensiero
    che vuol manifestarsi, ed il cui parto
    grandi sforzi ti costa.

                            ANTONIO.

                           Ecco, signore:
    questo messer di debole memoria
    --che lascerà fra gli uomini un ricordo
    anche più lieve quando sia sepolto--
    quasi convinto ha il Re (perchè costui
    è l'uomo del convincere e soltanto
    a questo scopo è nato) che suo figlio
    sia sempre vivo. Che non sia affogato
    è impossibile, come non sarebbe
    possibile che nuoti ei che qui dorme.

                          SEBASTIANO.

    Non ho alcuna speranza ch'egli sia
    salvo.

                            ANTONIO.

         Quanta speranza in quella "alcuna
    speranza"! Alcuna speme è un'altra strada
    che adduce a una speranza così alta
    qual l'occhio dell'ambizione appena
    può raggiungerla e dubita pur anco
    di poterla scoprire! Convenite
    con me che Ferdinando è morto?

                          SEBASTIANO.

                                  È morto.

                            ANTONIO.

    Dunque qual'è l'erede più vicino
    al trono?

                          SEBASTIANO.

             Claribella.

                            ANTONIO.

                        La regina
    di Tunisi, colei che abita a dieci
    leghe oltre il poter nostro; colei che
    da Napoli non può ricever nuove
    (se non le faccia da corriere il sole
    chè l'_Uomo nella luna_ andrebbe troppo
    lento) prima che il mento del fanciullo
    appena nato sia peloso e pronto
    ad esser raso; quella per cui tutti
    fummo preda del mare e solo alcuni
    rigettati alla spiaggia. Ma son questi
    predestinati a compiere un tal fatto
    di cui il passato è il prologo e il futuro
    sta nelle vostre mani e nelle mie.

                          SEBASTIANO.

    Che vaniloquio! Cosa dite? È vero
    che la figlia di mio fratello regna
    su Tunisi ed è vero ch'ella sia
    la sola erede al trono e che fra i due
    paesi corra un qualche spazio.

                            ANTONIO.

                                  Un tale
    spazio, che ciascun cubito ci sembra
    debba gridare: "Come Claribella
    può dettar leggi a Napoli? Rimanga
    a Tunisi e si svegli Sebastiano".
    Dite: se quel sopor che ora li tiene
    fosse la morte, non sarebber peggio
    di quel che sono. E può qualcun regnare
    su Napoli, così come costui
    che dorme. Ci sarebbero signori
    che potrebber parlar con altrettanta
    inutile abbondanza al par di questo
    Gonzalo. Io stesso potrei far discorsi
    così vani. Ah perchè voi non avete
    un'anima alla mia pari! Qual sonno
    sarebbe questo al salir vostro! Udite?

                          SEBASTIANO.

    Credo di sì!

                            ANTONIO.

                Con qual senso accogliete
    questa vostra fortuna?

                          SEBASTIANO.

                          Mi rammento
    che soppiantaste Prospero, il fratello
    vostro.

                            ANTONIO.

           È vero. E guardate come bene
    mi stanno addosso queste vesti: molto
    meglio di prima. Mi erano compagni
    di mio fratello i servi, ora mi sono
    sottomessi.

                          SEBASTIANO.

               Però la coscienza...

                            ANTONIO.

    Ahi, signore, dov'è? S'ella pur fosse
    un gelone potrebbe trattenermi
    dentro le mie pantofole: ma io
    non sento quella Dea dentro il mio seno.
    Ci fossero fra me e Milano venti
    coscienze potrebbero gelare
    e liquefarsi prima che una qualche
    molestia mi recassero. Il fratello
    vostro qui giace e non varrebbe meglio
    di questa terra su cui dorme s'egli
    fosse quello che sembra: morto. Io posso
    con tre pollici sol di questo ferro
    obbediente stenderlo per sempre
    sul suo letto e nel tempo stesso, voi
    rivolgete lo sguardo a questo vecchio
    straccio di ser Prudente, che in tal modo
    non sarebbe più là per giudicare
    quel che facemmo. In quanto agli altri tutti,
    accetteranno, come un gatto beve
    una tazza di latte, quel che noi
    vorremo suggerire e obbedienti
    orologi quell'ora suoneranno
    che diremo esser utile all'impresa
    del momento.

                          SEBASTIANO.

                Sarà mio precedente
    il tuo passato, caro amico, e come
    acquistasti Milano io farò mia
    Napoli. Fuori la tua spada; un colpo
    e ti libererai da quel tributo
    che paghi, ed io, Re, ti amerò.

                            ANTONIO.

                                  Snudiamo
    le spade insieme e quando la mia mano
    si alzerà, faccia la vostra altrettanto
    per Gonzalo.

                                      Rientra ARIELE invisibile.
                                      Si ode una musica.

                          SEBASTIANO.

                Ma ascolta una parola.

                                Lo trae da un lato, parlandogli.

                            ARIELE.

    Ha preveduto il mio signor per mezzo
    dell'arte sua questo periglio in cui
    l'amico suo si trova e qui mi manda
    che tu viva e non muoia il suo disegno.

                              Parlando negli orecchi di Gonzalo.

           _Mentre giaci addormentato
        la congiura dall'occhio sbarrato
            non perde un momento.
            Se la vita ti sta a cuore
        scuoti dunque cotesto torpore.
            Attento! Attento!_

                            ANTONIO.

    Siamo rapidi entrambi.

                            GONZALO

                                                   svegliandosi.

                          Angeli buoni
    salvate il Re.

                                         A Sebastiano e Antonio.

                  Che cosa c'è?

                                                       A Alonzo.

                               Su! Sveglio.

                                         A Sebastiano e Antonio.

    Perchè le spade sguainate? E cosa
    vogliono dire quei sinistri sguardi?

                             ALONZO

                                                   svegliandosi.

    Che c'è di nuovo?

                          SEBASTIANO.

                      Mentre vegliavamo
    sopra il vostro riposo, in un istante
    medesimo un rumore udimmo come
    ruggir di tori o di leoni. È questo
    che vi ha svegliati? Assai terribilmente
    mi ha colpito l'orecchio.

                            ALONZO.

                             Io non ho udito
    nulla.

                            ANTONIO.

          Era uno strepito che avrebbe
    spaventato l'orecchio anche di un mostro
    e il suol fatto tremare. È stato certo
    il ruggire d'un'orda di leoni.

                            ALONZO.

    Tu l'udisti, o Gonzalo?

                            GONZALO.

    Sul mio onore
    udito ho come un mormorio bizzarro
    che mi ha svegliato: ed io vi ho scosso allora
    e vi ho svegliato e mentre aprivo gli occhi
    visto ho le spade loro ignude. Certo
    vi fu rumore, e questo è vero. Meglio
    faremo a stare in guardia o pur lasciamo
    questa contrada. E sfoderiam le spade.

                            ALONZO.

    Lasciamo pure questo luogo e il figlio
    mio misero cerchiamo.

                            GONZALO.

                         Il ciel lo tenga
    lungi da tali belve, ch'egli è certo
    in quest'isola!

                            ALONZO.

                   Andiamo.

                                             Exit con gli altri.

                            ARIELE.

                           Il mio signore
    Prospero, ben saprà quel che ho compito
    e tu, Re, cerca il figliuol tuo smarrito.

                                                           Exit.


                           SCENA II.

                   Un'altra parte dell'isola.

            Entra CALIBANO con un fastello di legna.
                 Si ode rumoreggiare il tuono.

                           CALIBANO.

    Tutte le infezioni che dai botri,
    dalle paludi, dalli stagni sugge
    il sole, possan ricadere sopra
    Prospero ed ogni pollice del suo
    corpo coprir di pustole! Gli spiriti
    suoi m'odono e pur debbo maledirlo.
    Ma s'ei non lo comanda non verranno
    a pungermi nè a spaventarmi in loro
    visioni di démoni nè a farmi
    cader nei fossi, o come fuochi erranti
    a condurmi di notte fuori della
    mia strada. Per la più piccola cosa
    eccoli addosso a me! Simili a scimmie
    qualche volta m'irridono col loro
    stridere e mi perseguono ed al fine
    mi mordono; altre volte prendon forma
    di porcospini che sul mio cammino
    si arrotolano sì che le lor punte
    mi feriscono i piedi, e spesso ancora
    son circondato da serpenti, i quali
    con la forcuta lingua sibilando
    mi rendon pazzo. Ahimè, questo che viene
    è uno dei suoi spiriti che certo
    mi vorrà tormentar perchè son lento
    a portare la legna. Vo' cadere
    disteso al suol, che forse non mi scorge.

                                                 Entra TRINCULO.

                           TRINCULO.

Non c'è nè un cespuglio nè un alberello qualunque per
ripararsi dalle intemperie ed ecco che si prepara una
tempesta: la sento brontolare nel vento e c'è laggiù una
nuvola nera--quella grossa là--che sembra un vecchio oltre
il quale sia per spandere il suo liquido. Se tonasse, come
ha già fatto, non saprei nè meno dove nascondere il capo:
quella nuvola là non ci risparmierà certo l'acqua a secchie!
Cosa c'è, qui per terra? Un uomo o un pesce? È morto o è
vivo? È un pesce: per lo meno puzza di pesce, un puzzo
rancido di pesce passato; una specie di baccalà che non
dovrebbe essere nè meno tanto fresco. Che pesce buffo! Se
fossi ora in Inghilterra, come ci sono stato un tempo, e se
avessi questo pesce solamente dipinto, non un baggiano, nei
giorni di fiera, mi rifiuterebbe la sua moneta d'argento per
vederlo. In quel paese, questo mostro arricchirebbe il suo
uomo: ogni strana bestia arricchisce il suo uomo laggiù.
Certo, non darebbero un centesimo per soccorrere un povero
stroppiato, ma ne sborserebbero dieci per vedere un Indiano
morto. Piedi come un uomo e natatoie per braccia! In parola
d'onore, è caldo! Abbandono la mia prima opinione: la
congedo definitivamente: non è un pesce ma un isolano che
sarà stato colpito dal fulmine.

                                   Si ode rumoreggiare il tuono.

Povero me, ecco la bufera che ritorna! Non ho di meglio da
fare che nascondermi sotto il suo gabbano: non c'è altro
riparo tutto intorno! La sventura vi fa trovare curiosi
compagni di letto! Mi nasconderò là sotto finchè non sarà
passato il tramestìo della tempesta.

                         Si nasconde sotto le vesti di Calibano.

                                      Entra STEFANO cantando
                                      con una bottiglia in mano.

                            STEFANO.

        _Non andrò più al mare, al mare,
        sulla spiaggia vo' morir...._

È un ritornello adattatissimo per il trasporto di qualcuno:
ma ecco la mia consolazione.

                                                           Beve.

        _Il Padrone, il nostromo, io stesso, i marinari
              il cannoniere e il servente
        Megg, Moll e Marietta amavano del pari
              ma non si curavan niente
        di Cate che un linguaggio aveva spudorato
              e al marinar diceva di sovente
                    "Sii appiccato".
        Il gusto del catrame non le piaceva punto
              nè della pece il sapore
        sì che un sarto qualunque potea graffiarla appunto
              dove sentisse il prudore.
            Dunque su, ragazzi, al mare
            e lasciatela impiccare!_

Anche questa è una canzone poco allegra: ma ecco la mia
consolazione.

                                                           Beve.

                           CALIBANO.

Non mi tormentate.... oh....

                            STEFANO.

Cosa c'è? Ci sono dei diavoli qui? È per farci qualche
burletta che vi travestite da selvaggi e da uomini
dell'India, eh? Non mi son salvato dall'affogamento per aver
ora paura delle vostre quattro zampe; già che è stato detto:
"L'uomo più forte che mai sia andato su quattro gambe, non
cederà il terreno" e si ripeterà di nuovo, finchè Stefano
respirerà col suo naso.

                           CALIBANO.

Gli spiriti mi tormentano, oh....

                            STEFANO.

Questo deve essere un qualche mostro a quattro zampe
dell'isola, che avrà acchiappato la febbre. Dove diavolo può
avere imparato la nostra lingua? Non fosse che per questo
gli vo' recare qualche aiuto. Se mi riescirà a guarirlo lo
addomesticherò e lo condurrò a Napoli con me: sarà un regalo
degno di ogni imperatore che avrà messo i piedi nel cuoio di
vacca.

                           CALIBANO.

    Non tormentarmi, te ne prego, il legno
    a casa porterò presto.

                            STEFANO.

Deve avere un accesso perchè quello che dice non è molto
ragionevole. Gli farò assaggiare la mia bottiglia: se non ha
mai bevuto vino, questa bevuta sarà capace di levargli la
febbre. Se potrò guarirlo e addomesticarlo, non lo curerò
mai abbastanza già che farà rientrare il suo padrone nelle
spese e presto, ve lo garantisco io.

                                          Dà da bere a Calibano.

Non sapreste dire chi è il vostro amico: apri bocca un'altra
volta.

                                        Gli dà di nuovo da bere.

                           CALIBANO.

                         Un gran male
    non mi farai, ma ancora un poco certo:
    lo veggo al tuo tremor; Prospero agisce
    sopra di te.

                            STEFANO.

Vieni qua: apri bocca. Ecco qualcosa che ti snoderà la
lingua, gatto mio. Apri bocca: ecco una cosa che ti leverà
di dosso i brividi, te lo garantisco io.

                                                 Gli dà da bere.

Su, apri bocca.

                           TRINCULO.

Riconosco questa voce: dovrebbe essere.... ma è affogato
quello. Questi sono diavoli. Aiuto!

                            STEFANO.

Quattro zampe e due voci: un mostro straordinario! La voce
davanti è per dir bene del suo amico, senza dubbio, e quella
di dietro per maledire e dire delle oscenità. Fosse pur
necessario tutto il vino della mia bottiglia, lo guarirò.
Vieni qua.

                                        Gli dà di nuovo da bere.

Amen. Voglio versarne un poco anche nell'altra bocca.

                           TRINCULO.

Stefano!

                            STEFANO.

L'altra tua bocca mi chiama per nome? Aiuto! Aiuto! Questo è
un diavolo e non un mostro.

                           TRINCULO.

Stefano! Se tu sei Stefano toccami e parlami perchè io sono
Trinculo: non aver paura, sono il tuo buon amico Trinculo.

                            STEFANO.

E se tu sei Trinculo, vieni fuori. Ti tirerò per le gambe
più corte: perchè se fra tante gambe ci sono le gambe di
Trinculo, quelle sono le più corte.

                                    Tira fuori Trinculo di sotto
                                    il mantello di Calibano.

Sei proprio Trinculo per davvero! Come diavolo hai fatto a
servire di sedile a questo vitello? O che forse peta
Trinculi?

                           TRINCULO.

Credevo che fosse stato fulminato. Ma tu non sei affogato,
Stefano? Io spero che tu non sia affogato. Mi ero nascosto
sotto il gabbano di quel vitello, per paura della tempesta.
E tu sei vivo, Stefano? O Stefano, due Napoletani salvi!

                            STEFANO.

Ti prego, non mi girare così intorno: il mio stomaco non è
troppo solido.

                            CALIBANO

                                                          da sè.

                Sono esseri assai belli
    se pur non sono spiriti. È un gran Dio
    costui che reca un suo liquor celeste.
    Mi voglio inginocchiare.

                            STEFANO.

E come te la sei scampata? Come sei arrivato qui? Giurami su
questa bottiglia come sei arrivato qui. Io mi son salvato
sopra un barile di Xeres che i marinari avevano buttato in
mare: lo giuro per questa bottiglia che mi son fabbricato
con la scorza d'albero appena giunto a terra.

                           CALIBANO.

                        Ed io su questa
    bottiglia giurerò d'esserti fido
    suddito: che non è cosa terrena
    il suo liquore.

                            STEFANO.

Su via: raccontami come ti sei salvato.

                           TRINCULO.

Nuotando come un'anitra, ragazzo mio. Io posso nuotare come
un'anitra: te l'ho giurato.

                            STEFANO.

E allora, qua: bacia il vangelo.

                                                 Gli dà da bere.

Se bene tu possa nuotare come un'anitra, non vuoi dire che
tu non sia fatto come un'oca.

                           TRINCULO.

O Stefano, ce ne hai dell'altro?

                            STEFANO.

Tutto il barile, ragazzo mio. La mia cantina è in una
grotta, sulla spiaggia del mare dove ho nascosto il mio
vino. Come va, vitello, ti è passata la febbre?

                           CALIBANO.

                Sei sceso dal cielo?

                            STEFANO.

Dalla luna, te lo dico io. Ero io che facevo l'_Uomo nella luna_.

                           CALIBANO.

    Io ti ho visto e ti adoro. La padrona
    mia m'insegnò a vederti ed il tuo cane
    e il fastello di spine.

                            STEFANO.

Vieni qua: giuramelo e bacia il vangelo. La riempirò di
nuovo. Giura.

                                          Dà da bere a Calibano.

                           TRINCULO.

Per questa buona luce: ecco un mostro di poca intelligenza.
Io aver paura di lui? Un mostriciattolo da niente! L'_Uomo
nella luna_! Un mostro credulone, via! Bravo mostro, succhi
bene.

                           CALIBANO.

                             Ogni più breve
    spazio fertile in questa isola, io voglio
    mostrarti. Ecco, ti bacio il piede: sii
    mio Dio.

                           TRINCULO.

Per la luce: un mostro ubbriacone e pieno di perfidia.
Quando il suo Dio si sarà addormentato gli ruberò la
bottiglia.

                           CALIBANO.

            Ti bacio il piede e d'esser tuo
    suddito giuro.

                            STEFANO.

Vieni dunque qua: in ginocchio e giura.

                           TRINCULO.

Questo mostro dalla testa di cane mi farà morir dal ridere.
Un mostro spregevole: sentirei quasi la voglia di
picchiarlo.

                            STEFANO.

Vieni qua: bacia.

                                                 Gli dà da bere.

                           TRINCULO.

Il povero mostro è briaco: un abominevole mostro.

                           CALIBANO.

                  Le più fresche fonti
    ti mostrerò, ti coglierò le bacche,
    saprò pescar per te, per te bastante
    legna metterò insieme. Che la peste
    venga al tiranno che ora servo! Invece
    verrò con te che sei meraviglioso.

                           TRINCULO.

Un mostro ridicolissimo, che trasforma un povero ubbriacone
in una meraviglia!

                           CALIBANO.

    Lascia, ti prego, ch'io ti porti dove
    sono i frutti selvatici; con l'unghie
    mie lunghe ti saprò scavare i bulbi;
    ti mostrerò dove la gazza ha il nido;
    t'insegnerò come si prenda al laccio
    la marmotta e saprò condurre te
    nei folti d'avellane e poi per te
    sniderò l'alche. E tu verrai con me?

                            STEFANO.

Su via: apri il cammino senza più chiacchierare. Trinculo,
siccome il Re e tutto il resto della compagnia sono
affogati, noi ereditiamo quest'isola. Qui, portami la
bottiglia: compagno Trinculo, fra poco la riempiremo.

                            CALIBANO

                                  cantando con voce da ubbriaco.

        _Addio padrone! padrone addio...._

                           TRINCULO.

Un mostro cialtrone: un mostro ubbriaco!

                           CALIBANO.

        _D'ora in avanti non più penare
            per pescare
        non più fardelli pe'l focolare.
        Piatti e stoviglie messi in cantone
            ban, ban Caliban
        ha nuovo servo nuovo padrone._

    Libertà hey-dà; hey-dà libertà, libertà hey-dà-libertà...

                            STEFANO.

Da bravo, mostro, apri il cammino.

                                                         Exeunt.





                          ATTO TERZO.

                          SCENA PRIMA.

               D'innanzi alla grotta di Prospero.

          Entra FERDINANDO recando un ceppo da ardere.


    Son faticosi certi giuochi e pure
    l'incanto lor compensa la fatica
    e bassezze vi son che sopportare
    si posson nobilmente. Spesso a ricche
    conclusioni tendono le imprese
    più miserande. L'opera ch'io compio
    essere mi dovrebbe tanto grave
    quanto odiosa, ma colei che servo
    quel che è sterile fa vivo e trasforma
    le mie fatiche in contentezza. Oh dieci
    volte ella è più gentil di quel che sia
    burbero il padre suo, che pure è fatto
    d'asprezze! Per un suo tristo comando
    gli debbo accatastar mille di questi
    ceppi e la mia dolce signora piange
    quando mi vegga lavorare e dice
    che mai lavor sì vile ebbe un cotale
    lavoratore. Ecco io mi scordo e pure
    questi dolci pensier fanno più lieve
    il lavor mio, sì che quanto più penso
    tanto meno fatico.

                                              Entra MIRANDA e
                                              in fondo PROSPERO.

                            MIRANDA.

                       Ahimè, vi prego,
    non lavorate sì aspramente. Avesse
    arso il fulmine questi ceppi che ora
    dovete accatastar. Lasciate questo,
    vi prego, e riposatevi. Allorquando
    brucerà dovrà piangere d'avervi
    fatto stancare. Immerso nello studio
    è mio padre: vi supplico, lasciate
    di lavorare; per tre ore, almeno,
    ei non verrà.

                          FERDINANDO.

                 Dolcissima signora,
    il sol tramonterà prima ch'io m'abbia
    compiuto il mio lavoro.

                            MIRANDA.

                           Se vorrete
    sedervi i ceppi io porterò per voi.
    Datemi quello, ve ne prego, io stessa
    lo recherò sulla catasta.

                          FERDINANDO.

                             No,
    o creatura preziosa, meglio
    spezzarmi i nervi e rompermi la schiena
    che lasciarvi compire un disonore
    simile mentre rimarrei seduto
    senza far nulla.

                            MIRANDA.

                    Assai meglio che a voi
    mi converrebbe un tal lavoro. Il mio
    cuore lo anela e ben ripugna al vostro.

                            PROSPERO

                                                        a parte.

    Avvelenato sei, povero verme:
    lo prova questa tua visita.

                            MIRANDA.

                               Avete
    l'aspetto stanco.

                          FERDINANDO.

                     O nobile signora,
    non è vero: per me siete un mattino
    fresco anche quando è notte. Ma vi prego,
    ditemi il nome vostro ch'io lo possa
    pronunziar nelle mie preci.

                            MIRANDA.

                               Miranda.
    O padre mio, dicendolo, ai comandi
    vostri ho disobbedito ora.

                          FERDINANDO.

                              O ammirata
    Miranda, o vetta d'ammirazione
    degna di quanto è più caro nel mondo!
    A molte dame il mio sguardo migliore
    ho rivolto e ben spesso l'armonia
    di lor parole ha reso schiavo il mio
    udito troppo pronto. Per diverse
    virtù, diverse donne ho amato e mai
    con anima sì piena, poichè sempre
    qualche difetto in lor si combatteva
    con le grazie più elette, rimanendo
    vittorioso. Ma, per contro, voi,
    oh voi, così perfetta e senza pari
    siete l'eccelsa d'ogni creatura!

                            MIRANDA.

    Io non conosco alcuna del mio sesso
    nè rammento alcun volto femminile
    all'infuori del mio visto allo specchio.
    E fra quelli che posso nominare
    uomini, solo ho visto voi--l'amico
    mio buono--e il caro padre. Come sono
        gli umani volti, fuor di qui, lo ignoro,
    ma la modestia mia, solo gioiello
    della mia dote, non vuol altro al mondo
    compagno fuor di voi, nè il mio pensiero
    immaginar potrebbe un'altra forma
    a voi diversa ch'io potessi amare.
    Ma forse troppo follemente io parlo
    ed i precetti di mio padre oblio.

                          FERDINANDO.

    Principe io son--Miranda--per la mia
    nascita e--non lo voglia Iddio--fors'anco
    Re; nè vorrei questo portar di legna
    sopportare così come a una mosca
    delle carogne, non permetterei
    di pungermi le labbra. Ora ascoltate
    parlar l'anima mia: dal primo istante
    ch'io vi scorsi, il mio cuore in servitù
    vostra si venne e quivi esso è rimasto
    a farmi schiavo ed è solo per voi
    che qui rimango a trasportar la legna
    con pazienza.

                            MIRANDA.

                 Voi mi amate?

                          FERDINANDO.

                              Oh cielo,
    oh terra, siate testimoni a queste
    parole e coronate con felice
        evento quel che sto per dir, se dico
    il vero e se menzogna è quello ch'io
    esprimo, sia pur quanto di fortuna
    m'è riserbato, convertito in duolo.
    Oltre tutti i confin di ciò che è il mondo
    io vi ho cara e vi venero e vi adoro.

                            MIRANDA

                                                         piange.

    Sono folle di piangere per cosa
    che mi rende felice.

                            PROSPERO

                                                          da sè.

                        O buon incontro
    di due nobili cuori. Il cielo piova
    la grazia sua sul sentimento nato
    fra loro due!

                          FERDINANDO.

                 Ma perchè mai piangete?

                            MIRANDA.

    Perchè non sono degna d'offerirvi
    quel che darvi vorrei, nè prender quello
    che morirei di perdere. Ma questi
    son futili discorsi e più la mia
    affezione vuol celarsi e più
    gigantesca si mostra. Indietro, o vana
    timidezza! mi sia guida soltanto
        l'innocenza mia semplice ed onesta.
    Sarò la moglie vostra se vorrete
    sposarmi o morirò vostra fantesca.
    Che compagna vi sia, voi ben potete
    ricusare ma pur vi sarò serva
    che lo vogliate o no.

                          FERDINANDO.

                         La mia più cara
    signora e come sono adesso, sempre
    umile innanzi a voi.

                            MIRANDA.

    Dunque, mio sposo?

                          FERDINANDO.

    Sì e con tal volonteroso cuore
    quanto la servitù mai non è stata
    di libertà. Prendi la mano.
                
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