MIRANDA.
Ahimè che pena!
FERDINANDO.
Sì, sulla mia fede!
E insiem con lui tutta la Corte e il Duca
di Milano col suo nobile figlio.
PROSPERO
a parte.
Il Duca di Milano con la sua
più nobile figliuola ti potrebbe
smentir, se lo credesse. A prima vista
si son scambiati i loro sguardi. O dolce
Ariel, sarai libero per questo!
A Ferdinando.
Signore, una parola, con i vostri
discorsi io temo non vi siate fatto
qualche danno. Ascoltate: una parola.
MIRANDA
da sè.
Perchè mio padre sì scortesemente
gli parla? È questo il terzo essere umano
ch'io vidi mai, ma il primo per il quale
io mi sospiri. La pietà sospinga
mio padre dalla mia parte.
FERDINANDO.
Se siete
vergine ancora e il vostro cor non sia
impegnato, di Napoli regina
io vi farò!
PROSPERO.
Piano, signore, ancora
una parola!
A parte.
Entrambi sono presi
da uno stesso potere, ma bisogna
questi rapidi eventi ritardare
perchè una troppo facile vittoria
non renda il premio troppo lieve.
A Ferdinando.
Ancora
una parola: ascoltami, t'impongo
di seguirmi. Tu, certo, usurpi un nome
che non è il tuo: come una spia venisti
in quest'isola e tenti d'usurparla
a me che sono il suo sovrano.
FERDINANDO.
No!
come è vero ch'io sono un uomo!
MIRANDA.
Nulla
di male può abitare un simil tempio.
Se dimora sì bella avrà il cattivo
spirito, i buoni spirti cercheranno
di abitarla con lui.
PROSPERO.
Seguimi!
A Miranda.
Smetti
di chieder grazia! È un traditore.
A Ferdinando.
Vieni!
Il collo ai piedi t'incatenerò,
l'acqua del mar sarà la tua bevanda,
conchiglie d'acqua dolce avrai per cibo
e disseccate radiche ed i gusci
delle ghiande. Su, vieni!
FERDINANDO.
No! Che prima
di subir tale trattamento voglio
aspettare un nemico più possente.
Sfodera la spada e resta immobile per incanto.
MIRANDA.
O caro padre nol tentar con prova
troppo imprudente: è nobile e non è
timido!
PROSPERO.
Cosa? Il mio piede diventa
mio maestro?
A Ferdinando.
Rinfodera la spada,
traditore che tenti di colpire
ma che non osi, tanto la certezza
di tua colpa ti aggrava. Smetti dunque
di stare in guardia! Con la mia bacchetta
io posso disarmarti e far cadere
la tua spada.
MIRANDA.
Vi supplico, o mio padre!
PROSPERO.
Via di qua, non appenderti alle mie
vesti.
MIRANDA.
Pietà, signore, io sarò il suo
ostaggio!
PROSPERO.
Basta! Ancora una parola
e mi cruccerò teco, per non dire
che ti odierò. Per simile impostore
guarda quale avvocato! Zitta! Credi
forse che non ci sieno altre figure
come questa, perchè non ne vedesti
all'infuori di Calibàno e della
sua? Folle bimba, al paragone d'altri
uomini, Calibàno egli è; son tutti
angeli al suo confronto.
MIRANDA.
Umili molto
son dunque i sentimenti miei: non cerco
di vederne migliori.
PROSPERO.
Or dunque, andiamo.
Obbedisci! I tuoi nervi son di nuovo
in infanzia e non hanno più vigore.
FERDINANDO.
Ed infatti è così! Tutti i pensieri
come in un sogno son paralizzati.
La morte di mio padre, la stanchezza
ch'io sento, e quella perdita di tutti
gli amici miei, per fino le minacce
di quest'uomo a cui sono sottomesso,
saranno lievi cose a me se dalla
mia prigione potrò solo una volta
al giorno, contemplar questa fanciulla.
La libertà tenga ogni più riposto
angolo della terra: in tal prigione
avrò spazio bastante.
PROSPERO.
da sè.
Bene!
A Ferdinando.
Andiamo!
Da sè.
Buon Ariele, ben oprasti!
A Ferdinando.
Andiamo!
Ad Ariele.
Ascolta quel che devi fare.
MIRANDA.
Abbiate
coraggio: assai migliore è il padre mio
di quel che il suo parlar non lo dimostri.
Quello che ha fatto è fuor del suo costume.
PROSPERO
ad Ariele.
Tu libero sarai siccome il vento
delle montagne, ma il comando mio
in ogni punto devi esattamente
adempiere!
ARIELE.
Alla lettera!
PROSPERO
A Miranda.
Su, via
seguimi e non parlarmi in suo favore.
ATTO SECONDO.
SCENA PRIMA.
Un'altra parte dell'isola.
Entrano ALONZO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
FRANCESCO, ADRIANO, ARIELE.
GONZALO.
Ve ne prego, o signor, siate contento:
per voi come per noi c'è ben ragione
d'essere lieti: poi che di gran lunga
la salvezza ogni perdita sorpassa.
È comune il dolor nostro: ogni giorno
la moglie di un marino, l'armatore
di un mercantile ed il mercante stesso
hanno un egual dolore. In quanto al nostro
miracolo--che tale è l'esser salvi,--
fra milïoni d'uomini ben pochi
posson parlare come noi. Ponete
dunque sulla bilancia, o mio buon sire,
la tristezza e il piacere.
ALONZO.
In grazia: basta!
SEBASTIANO.
Riceve le consolazioni come una minestra fredda.
ANTONIO.
Il consolatore non lo lascerà per così poco.
SEBASTIANO.
Guardatelo: sta caricando l'orologio della sua intelligenza.
Fra poco, suonerà.
GONZALO.
Sire....
SEBASTIANO.
E una: parla.
GONZALO.
Quando ogni afflizion che si presenta
in tal maniera, al suo ospite apporta....
SEBASTIANO.
Un dollaro.
GONZALO.
Un dolore: è giusto. Avete parlato meglio di quel che non
credevate.
SEBASTIANO.
E voi lo avete interpretato meglio di quello che non mi
fossi proposto.
GONZALO.
Ed è perciò, signore mio....
SEBASTIANO.
Uff! Come è prodigo della sua lingua!
ALONZO.
Ti prego,
risparmiami.
GONZALO.
Ho finito. Ma pertanto....
SEBASTIANO.
Continuerà a parlare.
ANTONIO.
Scommettiamo: chi gracchierà prima, lui o Adriano?
SEBASTIANO.
Sarà il vecchio gallo.
ANTONIO.
Sarà il galletto.
SEBASTIANO.
Accettato. E la posta?
ANTONIO.
Una risata.
SEBASTIANO.
Tengo.
ADRIANO.
Se bene quest'isola sembri deserta....
SEBASTIANO.
Ah! ah! ah! ah! -- Eccovi pagato.
ADRIANO.
.... inabitabile e quasi inaccessibile....
SEBASTIANO.
Pure....
ADRIANO.
.... pure....
ANTONIO.
Non poteva tralasciarlo.
ADRIANO.
.... pure sembra che debba essere di clima leggero, sottile
e di delicata temperanza.
ANTONIO.
Temperanza era infatti una delicata donzella.
SEBASTIANO.
Già: e sottile anche, come l'ha saggiamente annunciato.
ADRIANO.
L'aria alita sopra di noi molto dolcemente.
SEBASTIANO.
Come se avesse polmoni e--per di più--marci.
ANTONIO.
O come se fosse profumata da una palude.
GONZALO.
Qui c'è ogni cosa giovevole alla vita.
ANTONIO.
Giusto: salvo però la maniera di vivere.
SEBASTIANO.
Di questa ce n'è poco o punto.
GONZALO.
Come l'erba apparisce folta e rigogliosa! E come è verde!
ANTONIO.
Il suolo però è gialliccio.
SEBASTIANO.
Con una punta di verde.
ANTONIO.
Non si è sbagliato di molto.
SEBASTIANO.
No: non fa che sbagliare intieramente la verità.
GONZALO.
Ma la rarità di tutto ciò, che è quasi oltre ogni
credere....
SEBASTIANO.
Come tante altre notorie rarità....
GONZALO.
.... è che le nostre vesti, bagnate dal mare come furono,
hanno non ostante conservato la loro freschezza e il loro
splendore e sono più tosto rinnovate che macchiate
dall'acqua salata.
ANTONIO.
Ma se una delle sue tasche potesse parlare, non direbbe
forse che mentisce?
SEBASTIANO.
Già: o per lo meno s'intascherebbe molto falsamente la sua
affermazione.
GONZALO.
Mi sembra che le nostre vesti siano così fresche come il
giorno che le indossammo per la prima volta, in Africa, al
matrimonio della figlia del Re, la gentile Claribella, col
Re di Tunisi.
SEBASTIANO.
Fu un bel matrimonio, che ci ha profittato molto nel
ritorno!
ADRIANO.
Tunisi non era mai stata onorata, prima di adesso, con un
modello di perfezione simile alla sua Regina.
GONZALO.
No: dal tempo della vedova Didone.
ANTONIO.
Vedova? La peste a lei! Come c'entra questa vedova? La
vedova Didone!
SEBASTIANO.
E così? Se egli avesse anche detto il "Vedovo Enea", Signore
Iddio, come ve la prendete, per questo!
ADRIANO.
Vedova Didone, avete detto? Ora mi ci fate pensare: ella era
di Cartagine, non di Tunisi.
GONZALO.
Questa Tunisi, o signore, era un tempo Cartagine.
ADRIANO.
Cartagine!
GONZALO.
Ve lo assicuro: Cartagine.
ANTONIO.
La sua parola val più di un'arpa miracolosa.
SEBASTIANO.
Egli ha innalzato le muraglie e le case tutte insieme.
ANTONIO.
Che cosa impossibile sta ora per rendere facile?
SEBASTIANO.
Suppongo che si porterà via quest'isola in tasca e che la
darà a suo figlio come una mela.
ANTONIO.
E che ne butterà i semi in mare per far nascere altre isole!
ALONZO.
Che c'è?
ANTONIO.
Arriva in buon punto.
GONZALO.
Sire, dicevamo che le nostre vesti sono fresche come quando
eravamo a Tunisi, per il matrimonio di vostra figlia, ora
regina.
ANTONIO.
E la più rara che sia mai veduta là.
SEBASTIANO.
Eccettuata, vi prego, la vedova Didone.
ANTONIO.
O la vedova Didone! Già: vedova Didone!
GONZALO.
Non è forse, sire, il mio giustacuore fresco come il primo
giorno che lo indossai? Intendo, sotto un certo punto di
vista....
ANTONIO.
Ecco un "punto di vista" pescato opportunamente.
GONZALO.
.... quando lo indossai al matrimonio di vostra figlia?
ALONZO.
M'impinzate le orecchie con parole
oltre la fame dei miei sensi. Il cielo
volesse ch'io mia figlia non avessi
maritato costà: chè nel ritorno
ho perduto mio figlio e se non erro,
ora che dall'Italia ella è sì lunge,
io non potrò più rivederla. O erede
di Milano e di Napoli, di quale
strano pesce sarai stato pastura?
FRANCESCO.
Sire, forse egli è vivo. Io l'ho veduto
domare l'onde e cavalcarne il dorso.
Egli sottometteva l'acque e d'ambo
i lati respingea quei loro attacchi
nemici e le più aspre ondate contro
di lui sospinte a sè stringea. L'ardita
fronte oltre i flutti irosi sollevando
con buone braccia in vigorosi colpi
remigava così verso la costa
che, dal flutto minata, reclinava
sopra lui, quasi ad aiutarlo. Salvo
giunse a terra.
ALONZO.
No, no, perito è certo.
SEBASTIANO.
Sire, potete ringraziar voi stesso
per questa grande perdita. L'Europa
favorir non voleste con la figlia
vostra, che preferiste abbandonare
a un africano e quivi ella è bandita
dai vostri occhi che giustamente ormai
lacrime versan di rimpianto.
ALONZO.
Basta,
ti prego.
SEBASTIANO.
Supplicato foste e tutti
c'inginocchiammo innanzi a voi con ogni
genere di preghiere e quella stessa
bell'anima divisa fra disgusto
e obedienza, esitò a lungo incerta
da qual lato propendere. Perduto
per sempre abbiamo vostro figlio, io temo,
e Napoli e Milano avran per questa
avventura più vedove che noi,
uomini non rechiamo a consolarle.
La colpa è vostra.
ALONZO.
Ed è la mia più cara
perdita!
GONZALO.
O Sebastiano, o mio signore,
il vero che narrate manca forse
di gentilezza e di opportunità.
Irritate la piaga quando invece
voi dovreste arrecar l'impiastro.
SEBASTIANO.
È giusto.
ANTONIO.
E chirurgico molto.
GONZALO.
O mio buon sire
è tempo nero per noi tutti, quando
siete rannuvolato.
SEBASTIANO.
Tempo nero.
ANTONIO.
Nerissimo.
GONZALO.
E dovessi io coltivare
quest'isola, o signore....
ANTONIO.
Pianterebbe
l'ortica.
SEBASTIANO.
O pur la malva.
GONZALO.
S'io mi fossi
il Re, cosa farei?
SEBASTIANO.
Vi provereste
a non ubriacarvi per mancanza
di vino.
GONZALO.
Nel mio Stato ordinerei
le cose alla rovescia: non un nome
di magistrato ammetterei; commerci
d'ogni genere esclusi; ignote tutte
le lettere; ricchezza, povertà,
usi di servitù nessuno; niente
contratti, eredità, siepi, poderi
chiusi, terreni coltivati e vigne;
proibito l'uso di metalli, d'olio,
di frumento, di vino; alcun lavoro:
gli uomini tutti in ozio ed anche tutte
le donne, ma innocenti e pure; alcuna
supremazia regale....
SEBASTIANO.
Ma vorrebbe
essere il Re!
ANTONIO.
La fine della sua repubblica si dimentica del
principio!
GONZALO.
Senza sudori e senza
sforzi tutte le cose produrrebbe
la Natura; vorrei fossero ignoti
il tradimento, la bassezza e l'uso
di spada, di coltello, di fucile,
di picca e d'ogni altra arma; la benigna
Natura produrrebbe in abbondanza
quanto basti a nutrire il popol mio!
SEBASTIANO.
E nessun matrimonio fra i suoi sudditi.
ANTONIO.
Nessuno: tutti in ozio, puttane e farabutti.
GONZALO.
E vorrei governar, sire, con tanta
perfezione, che l'età dell'oro
sarebbe sorpassata.
SEBASTIANO.
Salva sia
Sua Maestà!
ANTONIO.
Evviva il Re Gonzalo!
GONZALO.
E--mi ascoltate, o sire....
ALONZO.
Basta, ti prego; le tue parole non mi dicono niente.
GONZALO.
Credo facilmente a Vostra Altezza e se le ho dette è stato
per divertire questi gentiluomini i quali hanno una milza
così sensibile, che si mettono a ridere per la minima
sciocchezza.
ANTONIO.
Questa volta abbiamo riso di voi.
GONZALO.
Il quale io, in questo genere di allegra pazzia sono un
niente in confronto a voi. Così potete continuare e ridere
ancora di nulla.
ANTONIO.
Che colpo ci avrebbe dato!
SEBASTIANO.
Se non fosse caduto come uno straccio.
GONZALO.
Voi siete gentiluomini di fegato, capaci di tirar giù la
luna dalla sua sfera, se stesse cinque giorni senza
cambiare.
Entra ARIELE invisibile.
Si ode una musica solenne.
SEBASTIANO.
Lo faremmo infatti e ci andremmo a caccia servendocene come
lanterna.
ANTONIO.
Su via, mio buon signore, non vi arrabbiate.
GONZALO.
O no, ve lo garantisco io, non comprometterei la mia serietà
per così poco. Volete ridere di me mentre dormo? Mi sento
molto stanco.
ANTONIO.
Andate a dormire e cercate di sentirci.
Tutti si addormentano, eccettuati
ALONZO, SEBASTIANO e ANTONIO.
ALONZO.
Come sì presto addormentati? Ahi fosse
possibile che gli occhi miei con loro
si chiudessero sopra i miei pensieri!
Sento che a ciò sono proclivi.
SEBASTIANO.
Sire,
non ricusate questa offerta, il sonno
ben di rado il dolor visita e quando
lo faccia, è di conforto.
ANTONIO.
Ambo, o signore,
vi guarderemo mentre riposate
e veglieremo alla salvezza vostra.
ALONZO.
Io vi ringrazio. Oh sonno portentoso!
ALONZO si addormenta.
Exit ARIELE.
SEBASTIANO.
Quale strano sopor tutti li tiene!
ANTONIO.
Forse è il clima.
SEBASTIANO.
Perchè, se gli occhi vostri
non si aggravan così? Non sento affatto
bisogno di dormire.
ANTONIO.
Ed io nè meno.
Son vigili i miei spiriti. Assopiti
essi sono nel sonno, tutti insieme
quasi per un accordo e son piombati
a terra come fulminati! Quale
buona fortuna, o Sebastiano. Quale
buona fortuna! Ma non più, mi sembra
però di legger sul tuo volto, quello
che vorresti: l'occasion ti parla
e la mia ardente fantasia già scorge
una corona alla tua fronte....
SEBASTIANO.
Cosa?
Sei tu sveglio?
ANTONIO.
Non odi il mio parlare?
SEBASTIANO.
L'odo: ma questo tuo parlare è certo
d'uomo assopito e tu nel sogno parli.
Cosa dicevi? Assai strano riposo,
dormir con gli occhi aperti! Tu ti muovi,
e stai in piedi e discorri e pure dormi
profondamente.
ANTONIO.
Nobil Sebastiano,
tu, la fortuna tua lasci dormire
o morire più tosto! E chiudi gli occhi
pur essendo ben sveglio.
SEBASTIANO.
È certo, russi
distintamente e v'è nel tuo russare
pur qualche senso.
ANTONIO.
Più che mio costume
io son serio e voi pur lo diverrete,
se mi darete ascolto, triplicato,
in questo caso.
SEBASTIANO.
Io sono un'acqua ferma.
ANTONIO.
E a scorrer io v'insegnerò.
SEBASTIANO.
Sì, fatelo:
un'indolenza ereditaria, forse
m'indurrà a rifluire.
ANTONIO.
O se sapeste
quanto questo proposito voi stesso
pur irridendo accarezzate e quanto
più lo spogliate e più lo fate bello!
Gli uomini del riflusso, veramente
sono vicini, molto spesso, al fondo
per il loro timore e per la loro
indolenza.
SEBASTIANO.
Ti prego, spiega meglio.
La durezza del tuo sguardo e del tuo
volto proclama un non so qual pensiero
che vuol manifestarsi, ed il cui parto
grandi sforzi ti costa.
ANTONIO.
Ecco, signore:
questo messer di debole memoria
--che lascerà fra gli uomini un ricordo
anche più lieve quando sia sepolto--
quasi convinto ha il Re (perchè costui
è l'uomo del convincere e soltanto
a questo scopo è nato) che suo figlio
sia sempre vivo. Che non sia affogato
è impossibile, come non sarebbe
possibile che nuoti ei che qui dorme.
SEBASTIANO.
Non ho alcuna speranza ch'egli sia
salvo.
ANTONIO.
Quanta speranza in quella "alcuna
speranza"! Alcuna speme è un'altra strada
che adduce a una speranza così alta
qual l'occhio dell'ambizione appena
può raggiungerla e dubita pur anco
di poterla scoprire! Convenite
con me che Ferdinando è morto?
SEBASTIANO.
È morto.
ANTONIO.
Dunque qual'è l'erede più vicino
al trono?
SEBASTIANO.
Claribella.
ANTONIO.
La regina
di Tunisi, colei che abita a dieci
leghe oltre il poter nostro; colei che
da Napoli non può ricever nuove
(se non le faccia da corriere il sole
chè l'_Uomo nella luna_ andrebbe troppo
lento) prima che il mento del fanciullo
appena nato sia peloso e pronto
ad esser raso; quella per cui tutti
fummo preda del mare e solo alcuni
rigettati alla spiaggia. Ma son questi
predestinati a compiere un tal fatto
di cui il passato è il prologo e il futuro
sta nelle vostre mani e nelle mie.
SEBASTIANO.
Che vaniloquio! Cosa dite? È vero
che la figlia di mio fratello regna
su Tunisi ed è vero ch'ella sia
la sola erede al trono e che fra i due
paesi corra un qualche spazio.
ANTONIO.
Un tale
spazio, che ciascun cubito ci sembra
debba gridare: "Come Claribella
può dettar leggi a Napoli? Rimanga
a Tunisi e si svegli Sebastiano".
Dite: se quel sopor che ora li tiene
fosse la morte, non sarebber peggio
di quel che sono. E può qualcun regnare
su Napoli, così come costui
che dorme. Ci sarebbero signori
che potrebber parlar con altrettanta
inutile abbondanza al par di questo
Gonzalo. Io stesso potrei far discorsi
così vani. Ah perchè voi non avete
un'anima alla mia pari! Qual sonno
sarebbe questo al salir vostro! Udite?
SEBASTIANO.
Credo di sì!
ANTONIO.
Con qual senso accogliete
questa vostra fortuna?
SEBASTIANO.
Mi rammento
che soppiantaste Prospero, il fratello
vostro.
ANTONIO.
È vero. E guardate come bene
mi stanno addosso queste vesti: molto
meglio di prima. Mi erano compagni
di mio fratello i servi, ora mi sono
sottomessi.
SEBASTIANO.
Però la coscienza...
ANTONIO.
Ahi, signore, dov'è? S'ella pur fosse
un gelone potrebbe trattenermi
dentro le mie pantofole: ma io
non sento quella Dea dentro il mio seno.
Ci fossero fra me e Milano venti
coscienze potrebbero gelare
e liquefarsi prima che una qualche
molestia mi recassero. Il fratello
vostro qui giace e non varrebbe meglio
di questa terra su cui dorme s'egli
fosse quello che sembra: morto. Io posso
con tre pollici sol di questo ferro
obbediente stenderlo per sempre
sul suo letto e nel tempo stesso, voi
rivolgete lo sguardo a questo vecchio
straccio di ser Prudente, che in tal modo
non sarebbe più là per giudicare
quel che facemmo. In quanto agli altri tutti,
accetteranno, come un gatto beve
una tazza di latte, quel che noi
vorremo suggerire e obbedienti
orologi quell'ora suoneranno
che diremo esser utile all'impresa
del momento.
SEBASTIANO.
Sarà mio precedente
il tuo passato, caro amico, e come
acquistasti Milano io farò mia
Napoli. Fuori la tua spada; un colpo
e ti libererai da quel tributo
che paghi, ed io, Re, ti amerò.
ANTONIO.
Snudiamo
le spade insieme e quando la mia mano
si alzerà, faccia la vostra altrettanto
per Gonzalo.
Rientra ARIELE invisibile.
Si ode una musica.
SEBASTIANO.
Ma ascolta una parola.
Lo trae da un lato, parlandogli.
ARIELE.
Ha preveduto il mio signor per mezzo
dell'arte sua questo periglio in cui
l'amico suo si trova e qui mi manda
che tu viva e non muoia il suo disegno.
Parlando negli orecchi di Gonzalo.
_Mentre giaci addormentato
la congiura dall'occhio sbarrato
non perde un momento.
Se la vita ti sta a cuore
scuoti dunque cotesto torpore.
Attento! Attento!_
ANTONIO.
Siamo rapidi entrambi.
GONZALO
svegliandosi.
Angeli buoni
salvate il Re.
A Sebastiano e Antonio.
Che cosa c'è?
A Alonzo.
Su! Sveglio.
A Sebastiano e Antonio.
Perchè le spade sguainate? E cosa
vogliono dire quei sinistri sguardi?
ALONZO
svegliandosi.
Che c'è di nuovo?
SEBASTIANO.
Mentre vegliavamo
sopra il vostro riposo, in un istante
medesimo un rumore udimmo come
ruggir di tori o di leoni. È questo
che vi ha svegliati? Assai terribilmente
mi ha colpito l'orecchio.
ALONZO.
Io non ho udito
nulla.
ANTONIO.
Era uno strepito che avrebbe
spaventato l'orecchio anche di un mostro
e il suol fatto tremare. È stato certo
il ruggire d'un'orda di leoni.
ALONZO.
Tu l'udisti, o Gonzalo?
GONZALO.
Sul mio onore
udito ho come un mormorio bizzarro
che mi ha svegliato: ed io vi ho scosso allora
e vi ho svegliato e mentre aprivo gli occhi
visto ho le spade loro ignude. Certo
vi fu rumore, e questo è vero. Meglio
faremo a stare in guardia o pur lasciamo
questa contrada. E sfoderiam le spade.
ALONZO.
Lasciamo pure questo luogo e il figlio
mio misero cerchiamo.
GONZALO.
Il ciel lo tenga
lungi da tali belve, ch'egli è certo
in quest'isola!
ALONZO.
Andiamo.
Exit con gli altri.
ARIELE.
Il mio signore
Prospero, ben saprà quel che ho compito
e tu, Re, cerca il figliuol tuo smarrito.
Exit.
SCENA II.
Un'altra parte dell'isola.
Entra CALIBANO con un fastello di legna.
Si ode rumoreggiare il tuono.
CALIBANO.
Tutte le infezioni che dai botri,
dalle paludi, dalli stagni sugge
il sole, possan ricadere sopra
Prospero ed ogni pollice del suo
corpo coprir di pustole! Gli spiriti
suoi m'odono e pur debbo maledirlo.
Ma s'ei non lo comanda non verranno
a pungermi nè a spaventarmi in loro
visioni di démoni nè a farmi
cader nei fossi, o come fuochi erranti
a condurmi di notte fuori della
mia strada. Per la più piccola cosa
eccoli addosso a me! Simili a scimmie
qualche volta m'irridono col loro
stridere e mi perseguono ed al fine
mi mordono; altre volte prendon forma
di porcospini che sul mio cammino
si arrotolano sì che le lor punte
mi feriscono i piedi, e spesso ancora
son circondato da serpenti, i quali
con la forcuta lingua sibilando
mi rendon pazzo. Ahimè, questo che viene
è uno dei suoi spiriti che certo
mi vorrà tormentar perchè son lento
a portare la legna. Vo' cadere
disteso al suol, che forse non mi scorge.
Entra TRINCULO.
TRINCULO.
Non c'è nè un cespuglio nè un alberello qualunque per
ripararsi dalle intemperie ed ecco che si prepara una
tempesta: la sento brontolare nel vento e c'è laggiù una
nuvola nera--quella grossa là--che sembra un vecchio oltre
il quale sia per spandere il suo liquido. Se tonasse, come
ha già fatto, non saprei nè meno dove nascondere il capo:
quella nuvola là non ci risparmierà certo l'acqua a secchie!
Cosa c'è, qui per terra? Un uomo o un pesce? È morto o è
vivo? È un pesce: per lo meno puzza di pesce, un puzzo
rancido di pesce passato; una specie di baccalà che non
dovrebbe essere nè meno tanto fresco. Che pesce buffo! Se
fossi ora in Inghilterra, come ci sono stato un tempo, e se
avessi questo pesce solamente dipinto, non un baggiano, nei
giorni di fiera, mi rifiuterebbe la sua moneta d'argento per
vederlo. In quel paese, questo mostro arricchirebbe il suo
uomo: ogni strana bestia arricchisce il suo uomo laggiù.
Certo, non darebbero un centesimo per soccorrere un povero
stroppiato, ma ne sborserebbero dieci per vedere un Indiano
morto. Piedi come un uomo e natatoie per braccia! In parola
d'onore, è caldo! Abbandono la mia prima opinione: la
congedo definitivamente: non è un pesce ma un isolano che
sarà stato colpito dal fulmine.
Si ode rumoreggiare il tuono.
Povero me, ecco la bufera che ritorna! Non ho di meglio da
fare che nascondermi sotto il suo gabbano: non c'è altro
riparo tutto intorno! La sventura vi fa trovare curiosi
compagni di letto! Mi nasconderò là sotto finchè non sarà
passato il tramestìo della tempesta.
Si nasconde sotto le vesti di Calibano.
Entra STEFANO cantando
con una bottiglia in mano.
STEFANO.
_Non andrò più al mare, al mare,
sulla spiaggia vo' morir...._
È un ritornello adattatissimo per il trasporto di qualcuno:
ma ecco la mia consolazione.
Beve.
_Il Padrone, il nostromo, io stesso, i marinari
il cannoniere e il servente
Megg, Moll e Marietta amavano del pari
ma non si curavan niente
di Cate che un linguaggio aveva spudorato
e al marinar diceva di sovente
"Sii appiccato".
Il gusto del catrame non le piaceva punto
nè della pece il sapore
sì che un sarto qualunque potea graffiarla appunto
dove sentisse il prudore.
Dunque su, ragazzi, al mare
e lasciatela impiccare!_
Anche questa è una canzone poco allegra: ma ecco la mia
consolazione.
Beve.
CALIBANO.
Non mi tormentate.... oh....
STEFANO.
Cosa c'è? Ci sono dei diavoli qui? È per farci qualche
burletta che vi travestite da selvaggi e da uomini
dell'India, eh? Non mi son salvato dall'affogamento per aver
ora paura delle vostre quattro zampe; già che è stato detto:
"L'uomo più forte che mai sia andato su quattro gambe, non
cederà il terreno" e si ripeterà di nuovo, finchè Stefano
respirerà col suo naso.
CALIBANO.
Gli spiriti mi tormentano, oh....
STEFANO.
Questo deve essere un qualche mostro a quattro zampe
dell'isola, che avrà acchiappato la febbre. Dove diavolo può
avere imparato la nostra lingua? Non fosse che per questo
gli vo' recare qualche aiuto. Se mi riescirà a guarirlo lo
addomesticherò e lo condurrò a Napoli con me: sarà un regalo
degno di ogni imperatore che avrà messo i piedi nel cuoio di
vacca.
CALIBANO.
Non tormentarmi, te ne prego, il legno
a casa porterò presto.
STEFANO.
Deve avere un accesso perchè quello che dice non è molto
ragionevole. Gli farò assaggiare la mia bottiglia: se non ha
mai bevuto vino, questa bevuta sarà capace di levargli la
febbre. Se potrò guarirlo e addomesticarlo, non lo curerò
mai abbastanza già che farà rientrare il suo padrone nelle
spese e presto, ve lo garantisco io.
Dà da bere a Calibano.
Non sapreste dire chi è il vostro amico: apri bocca un'altra
volta.
Gli dà di nuovo da bere.
CALIBANO.
Un gran male
non mi farai, ma ancora un poco certo:
lo veggo al tuo tremor; Prospero agisce
sopra di te.
STEFANO.
Vieni qua: apri bocca. Ecco qualcosa che ti snoderà la
lingua, gatto mio. Apri bocca: ecco una cosa che ti leverà
di dosso i brividi, te lo garantisco io.
Gli dà da bere.
Su, apri bocca.
TRINCULO.
Riconosco questa voce: dovrebbe essere.... ma è affogato
quello. Questi sono diavoli. Aiuto!
STEFANO.
Quattro zampe e due voci: un mostro straordinario! La voce
davanti è per dir bene del suo amico, senza dubbio, e quella
di dietro per maledire e dire delle oscenità. Fosse pur
necessario tutto il vino della mia bottiglia, lo guarirò.
Vieni qua.
Gli dà di nuovo da bere.
Amen. Voglio versarne un poco anche nell'altra bocca.
TRINCULO.
Stefano!
STEFANO.
L'altra tua bocca mi chiama per nome? Aiuto! Aiuto! Questo è
un diavolo e non un mostro.
TRINCULO.
Stefano! Se tu sei Stefano toccami e parlami perchè io sono
Trinculo: non aver paura, sono il tuo buon amico Trinculo.
STEFANO.
E se tu sei Trinculo, vieni fuori. Ti tirerò per le gambe
più corte: perchè se fra tante gambe ci sono le gambe di
Trinculo, quelle sono le più corte.
Tira fuori Trinculo di sotto
il mantello di Calibano.
Sei proprio Trinculo per davvero! Come diavolo hai fatto a
servire di sedile a questo vitello? O che forse peta
Trinculi?
TRINCULO.
Credevo che fosse stato fulminato. Ma tu non sei affogato,
Stefano? Io spero che tu non sia affogato. Mi ero nascosto
sotto il gabbano di quel vitello, per paura della tempesta.
E tu sei vivo, Stefano? O Stefano, due Napoletani salvi!
STEFANO.
Ti prego, non mi girare così intorno: il mio stomaco non è
troppo solido.
CALIBANO
da sè.
Sono esseri assai belli
se pur non sono spiriti. È un gran Dio
costui che reca un suo liquor celeste.
Mi voglio inginocchiare.
STEFANO.
E come te la sei scampata? Come sei arrivato qui? Giurami su
questa bottiglia come sei arrivato qui. Io mi son salvato
sopra un barile di Xeres che i marinari avevano buttato in
mare: lo giuro per questa bottiglia che mi son fabbricato
con la scorza d'albero appena giunto a terra.
CALIBANO.
Ed io su questa
bottiglia giurerò d'esserti fido
suddito: che non è cosa terrena
il suo liquore.
STEFANO.
Su via: raccontami come ti sei salvato.
TRINCULO.
Nuotando come un'anitra, ragazzo mio. Io posso nuotare come
un'anitra: te l'ho giurato.
STEFANO.
E allora, qua: bacia il vangelo.
Gli dà da bere.
Se bene tu possa nuotare come un'anitra, non vuoi dire che
tu non sia fatto come un'oca.
TRINCULO.
O Stefano, ce ne hai dell'altro?
STEFANO.
Tutto il barile, ragazzo mio. La mia cantina è in una
grotta, sulla spiaggia del mare dove ho nascosto il mio
vino. Come va, vitello, ti è passata la febbre?
CALIBANO.
Sei sceso dal cielo?
STEFANO.
Dalla luna, te lo dico io. Ero io che facevo l'_Uomo nella luna_.
CALIBANO.
Io ti ho visto e ti adoro. La padrona
mia m'insegnò a vederti ed il tuo cane
e il fastello di spine.
STEFANO.
Vieni qua: giuramelo e bacia il vangelo. La riempirò di
nuovo. Giura.
Dà da bere a Calibano.
TRINCULO.
Per questa buona luce: ecco un mostro di poca intelligenza.
Io aver paura di lui? Un mostriciattolo da niente! L'_Uomo
nella luna_! Un mostro credulone, via! Bravo mostro, succhi
bene.
CALIBANO.
Ogni più breve
spazio fertile in questa isola, io voglio
mostrarti. Ecco, ti bacio il piede: sii
mio Dio.
TRINCULO.
Per la luce: un mostro ubbriacone e pieno di perfidia.
Quando il suo Dio si sarà addormentato gli ruberò la
bottiglia.
CALIBANO.
Ti bacio il piede e d'esser tuo
suddito giuro.
STEFANO.
Vieni dunque qua: in ginocchio e giura.
TRINCULO.
Questo mostro dalla testa di cane mi farà morir dal ridere.
Un mostro spregevole: sentirei quasi la voglia di
picchiarlo.
STEFANO.
Vieni qua: bacia.
Gli dà da bere.
TRINCULO.
Il povero mostro è briaco: un abominevole mostro.
CALIBANO.
Le più fresche fonti
ti mostrerò, ti coglierò le bacche,
saprò pescar per te, per te bastante
legna metterò insieme. Che la peste
venga al tiranno che ora servo! Invece
verrò con te che sei meraviglioso.
TRINCULO.
Un mostro ridicolissimo, che trasforma un povero ubbriacone
in una meraviglia!
CALIBANO.
Lascia, ti prego, ch'io ti porti dove
sono i frutti selvatici; con l'unghie
mie lunghe ti saprò scavare i bulbi;
ti mostrerò dove la gazza ha il nido;
t'insegnerò come si prenda al laccio
la marmotta e saprò condurre te
nei folti d'avellane e poi per te
sniderò l'alche. E tu verrai con me?
STEFANO.
Su via: apri il cammino senza più chiacchierare. Trinculo,
siccome il Re e tutto il resto della compagnia sono
affogati, noi ereditiamo quest'isola. Qui, portami la
bottiglia: compagno Trinculo, fra poco la riempiremo.
CALIBANO
cantando con voce da ubbriaco.
_Addio padrone! padrone addio...._
TRINCULO.
Un mostro cialtrone: un mostro ubbriaco!
CALIBANO.
_D'ora in avanti non più penare
per pescare
non più fardelli pe'l focolare.
Piatti e stoviglie messi in cantone
ban, ban Caliban
ha nuovo servo nuovo padrone._
Libertà hey-dà; hey-dà libertà, libertà hey-dà-libertà...
STEFANO.
Da bravo, mostro, apri il cammino.
Exeunt.
ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
D'innanzi alla grotta di Prospero.
Entra FERDINANDO recando un ceppo da ardere.
Son faticosi certi giuochi e pure
l'incanto lor compensa la fatica
e bassezze vi son che sopportare
si posson nobilmente. Spesso a ricche
conclusioni tendono le imprese
più miserande. L'opera ch'io compio
essere mi dovrebbe tanto grave
quanto odiosa, ma colei che servo
quel che è sterile fa vivo e trasforma
le mie fatiche in contentezza. Oh dieci
volte ella è più gentil di quel che sia
burbero il padre suo, che pure è fatto
d'asprezze! Per un suo tristo comando
gli debbo accatastar mille di questi
ceppi e la mia dolce signora piange
quando mi vegga lavorare e dice
che mai lavor sì vile ebbe un cotale
lavoratore. Ecco io mi scordo e pure
questi dolci pensier fanno più lieve
il lavor mio, sì che quanto più penso
tanto meno fatico.
Entra MIRANDA e
in fondo PROSPERO.
MIRANDA.
Ahimè, vi prego,
non lavorate sì aspramente. Avesse
arso il fulmine questi ceppi che ora
dovete accatastar. Lasciate questo,
vi prego, e riposatevi. Allorquando
brucerà dovrà piangere d'avervi
fatto stancare. Immerso nello studio
è mio padre: vi supplico, lasciate
di lavorare; per tre ore, almeno,
ei non verrà.
FERDINANDO.
Dolcissima signora,
il sol tramonterà prima ch'io m'abbia
compiuto il mio lavoro.
MIRANDA.
Se vorrete
sedervi i ceppi io porterò per voi.
Datemi quello, ve ne prego, io stessa
lo recherò sulla catasta.
FERDINANDO.
No,
o creatura preziosa, meglio
spezzarmi i nervi e rompermi la schiena
che lasciarvi compire un disonore
simile mentre rimarrei seduto
senza far nulla.
MIRANDA.
Assai meglio che a voi
mi converrebbe un tal lavoro. Il mio
cuore lo anela e ben ripugna al vostro.
PROSPERO
a parte.
Avvelenato sei, povero verme:
lo prova questa tua visita.
MIRANDA.
Avete
l'aspetto stanco.
FERDINANDO.
O nobile signora,
non è vero: per me siete un mattino
fresco anche quando è notte. Ma vi prego,
ditemi il nome vostro ch'io lo possa
pronunziar nelle mie preci.
MIRANDA.
Miranda.
O padre mio, dicendolo, ai comandi
vostri ho disobbedito ora.
FERDINANDO.
O ammirata
Miranda, o vetta d'ammirazione
degna di quanto è più caro nel mondo!
A molte dame il mio sguardo migliore
ho rivolto e ben spesso l'armonia
di lor parole ha reso schiavo il mio
udito troppo pronto. Per diverse
virtù, diverse donne ho amato e mai
con anima sì piena, poichè sempre
qualche difetto in lor si combatteva
con le grazie più elette, rimanendo
vittorioso. Ma, per contro, voi,
oh voi, così perfetta e senza pari
siete l'eccelsa d'ogni creatura!
MIRANDA.
Io non conosco alcuna del mio sesso
nè rammento alcun volto femminile
all'infuori del mio visto allo specchio.
E fra quelli che posso nominare
uomini, solo ho visto voi--l'amico
mio buono--e il caro padre. Come sono
gli umani volti, fuor di qui, lo ignoro,
ma la modestia mia, solo gioiello
della mia dote, non vuol altro al mondo
compagno fuor di voi, nè il mio pensiero
immaginar potrebbe un'altra forma
a voi diversa ch'io potessi amare.
Ma forse troppo follemente io parlo
ed i precetti di mio padre oblio.
FERDINANDO.
Principe io son--Miranda--per la mia
nascita e--non lo voglia Iddio--fors'anco
Re; nè vorrei questo portar di legna
sopportare così come a una mosca
delle carogne, non permetterei
di pungermi le labbra. Ora ascoltate
parlar l'anima mia: dal primo istante
ch'io vi scorsi, il mio cuore in servitù
vostra si venne e quivi esso è rimasto
a farmi schiavo ed è solo per voi
che qui rimango a trasportar la legna
con pazienza.
MIRANDA.
Voi mi amate?
FERDINANDO.
Oh cielo,
oh terra, siate testimoni a queste
parole e coronate con felice
evento quel che sto per dir, se dico
il vero e se menzogna è quello ch'io
esprimo, sia pur quanto di fortuna
m'è riserbato, convertito in duolo.
Oltre tutti i confin di ciò che è il mondo
io vi ho cara e vi venero e vi adoro.
MIRANDA
piange.
Sono folle di piangere per cosa
che mi rende felice.
PROSPERO
da sè.
O buon incontro
di due nobili cuori. Il cielo piova
la grazia sua sul sentimento nato
fra loro due!
FERDINANDO.
Ma perchè mai piangete?
MIRANDA.
Perchè non sono degna d'offerirvi
quel che darvi vorrei, nè prender quello
che morirei di perdere. Ma questi
son futili discorsi e più la mia
affezione vuol celarsi e più
gigantesca si mostra. Indietro, o vana
timidezza! mi sia guida soltanto
l'innocenza mia semplice ed onesta.
Sarò la moglie vostra se vorrete
sposarmi o morirò vostra fantesca.
Che compagna vi sia, voi ben potete
ricusare ma pur vi sarò serva
che lo vogliate o no.
FERDINANDO.
La mia più cara
signora e come sono adesso, sempre
umile innanzi a voi.
MIRANDA.
Dunque, mio sposo?
FERDINANDO.
Sì e con tal volonteroso cuore
quanto la servitù mai non è stata
di libertà. Prendi la mano.