William Shakespear

La Tempesta
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MIRANDA.

                               Ed ecco
    la mia con tutto il core in essa. Ed ora
    addio per poco.

                          FERDINANDO.

                   Mille e mille dolci
    cose!

                                          Exeunt da vie diverse.

                           PROSPERO.

        Certo, non posso esser sì lieto
    quanto lo sono loro due colpiti
    da egual stupore in uno stesso tempo:
    ma il mio contento è grande quanto più
    essere non potrebbe. Al libro mio
    ritornerò, che prima della cena
    molto da oprar mi resta.

                                                           Exit.



                           SCENA II.

                   Un'altra parte dell'isola.

         Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO che reca
                         una bottiglia.


                            STEFANO.

Non mi seccare: quando il barile sarà vuoto
beveremo l'acqua: ma non una gocciola prima.
Per conseguenza: fermi e all'abbordaggio. Servo-mostro:
bevi alla mia salute.

                           TRINCULO.

Servo-mostro! La pazzia di quest'isola! Dicono
che non abbia che cinque abitanti e siamo
in tre: se gli altri due hanno delle zucche come
le nostre, addio stato!

                            STEFANO.

Bevi, servo-mostro, te l'ordino io. Hai quasi
gli occhi nella testa.

                                                  Calibano beve.

                           TRINCULO.

E dove vorresti che gli avesse? Sarebbe,
da vero, un bel mostro se gli avesse sulla coda.

                            STEFANO.

Il mio mostro-domestico ha affogato la sua
lingua nel vino. In quanto a me il mare non
mi potrebbe affogare: prima di toccare la spiaggia
ho notato trentacinque leghe in lungo e in
largo, quanto è vera la luce! Tu sarai il mio
tenente-mostro, oppure il mio alfiere.

                           TRINCULO.

Meglio il vostro tenente: non può essere un
alfiere.

                            STEFANO.

Vogliamo correre, _Monsieur_ Mostro?

                           TRINCULO.

Nè correre nè andare al passo: vi accuccerete
come cani e non saprete dire nè meno
una parola.

                            STEFANO.

Parla almeno una volta in vita tua, mio bel
vitello, se sei un vitello davvero!

                           CALIBANO.

    Come stai, Signoria? Lascia ch'io lecchi
    le tue scarpe. Costui, non vo' servirlo:
    egli non è valente.

                           TRINCULO.

Tu mentisci, o mostro ignorante: mi sento
capace di fare ai pugni con uno sbirro. Ma,
dimmi un poco, pesce svergognato, un uomo
che ha bevuto tanto vino quanto ne ho bevuto
io può essere un codardo? Vuoi proprio dirci
una mostruosa bugia, tu che sei mezzo pesce
e mezzo mostro?

                           CALIBANO.

                          Ahimè, si burla
    di me? Lo lascerai dire, o signore?

                           TRINCULO.

Ti ha chiamato _signore_: si è mai visto un
mostro così ingenuo?

                           CALIBANO.

    Ahimè, di nuovo, ahimè: mordilo fino
    a che ne muoia, te ne prego.

                            STEFANO.

Trinculo, cerca di aver in bocca una buona
lingua, se non vuoi conoscere il primo albero
come ribelle! Il povero mostro è mio suddito
e io non permetterò che sia insultato.

                           CALIBANO.

                                Grazie,
    mio nobile signore. Vuoi tu ancora
    udire quello che ti ho già narrato?

                            STEFANO.

Ma certo: mettiti in ginocchio e ripeti la
tua storia. Starò in piedi, con Trinculo, ad
ascoltarti.

                                        Entra ARIELE invisibile.

                           CALIBANO.

    Come ti ho detto,
    son sottomesso ad un tiranno, mago,
    che per l'incanto delle sue malie
    di quest'isola mia m'ha derubato.

                            ARIELE.

Tu mentisci.

                           CALIBANO.

    Mentisci tu, pagliaccio
    di uno scimmione, tu! Vorrei che il mio
    valoroso signor ti sterminasse.
    Io non mentisco.

                            STEFANO.

Trinculo, se lo interrompi un'altra volta, ti
farò saltare qualche dente con questa mano.

                           TRINCULO.

Ma se non ho detto nulla!

                            STEFANO.

Zitto dunque e non una parola.

                                                     A Calibano.

Tira avanti.

                           CALIBANO.

                      Con le sue malie
    mi ha rubato quest'isola, dicevo
    me l'ha rubata. Se la tua grandezza
    vuol di lui vendicarmi--io so che osarlo
    tu puoi, ma non costui....

                            STEFANO.

Questo è vero.

                           CALIBANO.

                             Sarai signore
    di tutto quanto ed io ti servirò.

                            STEFANO.

E come si potrà fare? Mi ci puoi condurre tu?

                           CALIBANO.

    Sì, sì, signore mio: mentre ch'ei dorme
    te lo farò vedere e nella sua
    testa potrai ben conficcargli un chiodo.

                            ARIELE.

Tu mentisci: non lo puoi fare.

                           CALIBANO.

    Che scemo quel fantoccio! O tu pagliaccio
    rognoso! Io prego vostra signoria
    di picchiarlo e di togliergli la sua
    bottiglia. Non potrà più bere quando
    non ce l'avrà, se non l'acqua marina,
    chè non gli mostrerò le fresche fonti.

                            STEFANO.

Trinculo, non scherzare col pericolo! Se interrompi
un'altra volta questo mostro, lascio da parte
la compassione e con le mie proprie mani ti
riduco come un baccalà.

                           TRINCULO.

Ma cosa ho fatto? Se non ho fatto nulla! Me
ne vado via, ecco.

                            STEFANO.

O non hai detto che mentiva?

                            ARIELE.

Tu mentisci!

                            STEFANO.

Ah mentisco? E tu prendi questo.

                                         Dà un pugno a Trinculo.

Se ti è piaciuto, smentiscimi un'altra volta.

                           TRINCULO.

Io non ti ho smentito. Hai perduto il cervello
e le orecchie? Maledetta la vostra bottiglia, è
tutta colpa del vino e della ubriachezza. Che
la peste si prenda il vostro mostro e il diavolo
le vostre dita.

                            CALIBANO

                                                        ridendo.

Ah! ah! ah! ah!

                            STEFANO.

E ora tira avanti, col tuo racconto. Allontanati,
ti prego.

                           CALIBANO.

    Picchialo ancora un po': fra qualche tempo
    anch'io lo picchierò.

                            STEFANO.

                          Più in là: prosegui.

                           CALIBANO.

    Ecco, come ti dissi, è suo costume
    di dormire nel pomeriggio. Allora
    quando i libri gli avrai tolti, potrai
    schiacciargli il cranio o rompergli la testa
    con un ceppo, o sventrarlo con un palo,
    o tagliargli la gola con il tuo
    coltello. Ma però, prima, rammenta
    d'impossessarti dei suoi libri. Senza
    di quelli ei non è altro che uno sciocco
    al par di me, nè ha più spirito alcuno
    al suo comando: l'odian tutti come
    io l'odio. Ma brucia soltanto i libri
    e serba i suoi belli utensili--in questo
    modo li chiama--con i quali ei vuole
    adornarsi una casa quando l'abbia.
    Ma più di tutto pensa alla bellezza
    di sua figlia: egli stesso la proclama
    "senza eguali". Non ho mai visto donna
    all'infuori di Sicorax, mia madre,
    e di lei: ma però questa sorpassa
    Sicorax, come una cosa più grande
    sorpassa una più piccola.

                            STEFANO.

                             Ella è dunque
    una ragazza così bella?

                           CALIBANO.

                           Certo,
    signore mio: ti garantisco ch'ella
    ti sarà di buon letto e ti darà
    bellissimi figliuoli.

                            STEFANO.

Mostro! io ammazzerò quell'uomo. Sua figlia
ed io, saremo il Re e la Regina--Dio salvi
le nostre Maestà--e Trinculo e tu stesso sarete
i miei vicerè. Ti piace la congiura, Trinculo?

                           TRINCULO.

Eccellente.

                            STEFANO.

Dammi la mano: mi dispiace di averti picchiato.
Ma finchè vivi, rattieni la lingua.

                           CALIBANO.

                        Fra mezz'ora
    si sarà addormentato: hai tu deciso
    di ucciderlo?

                            STEFANO.

                  In parola mia d'onore.

                            ARIELE.

Lo dirò al mio padrone!

                           CALIBANO.

    Tu mi rendi felice, io sono pieno
    di gioia: ci vogliamo divertire.
    Volete un po' riprendere quel canto
    che poco fa mi insegnavate?

                            STEFANO.

Voglio accordarti tutto quel che mi chiedi,
mostro: tutto quanto, tutto. Vieni qua, Trinculo,
cantiamo.

        _Canzoniamoli e snidiamoli,
        sì, snidiamoli e canzoniamoli:
        il pensiero è libero...._

                           CALIBANO.

                               Questa
    non è la stessa musica.

                                       Ariele suona la musica
                                       col flauto e col tamburo.

                            STEFANO.

Cos'è quest'eco?

                           TRINCULO.

È l'aria della nostra canzone, suonata dal
ritratto di Nessuno.

                            STEFANO.

Se sei un uomo fatti vedere come sei; se
sei un diavolo fatti vedere come ti pare.

                           TRINCULO.

Oh, perdono per i miei peccati!

                            STEFANO.

Quello che muore paga tutti i suoi debiti:
io ti sfido. Aiuto!

                           CALIBANO.

                      Hai paura?

                            STEFANO.

No, mostro, no.

                           CALIBANO.

    Non avere timor: l'isola è piena
    di rumori e di dolci arie che danno
    piacere e non fan male. Qualche volta
    di ben mille strumenti odono il rombo
    le orecchie mie: qualche altra volta sento
    voci, che se mi sveglio dopo un lungo
    sonno, mi fan riaddormentare e allora
    mi sembra di veder sognando nubi
    che squarciandosi mostran gran ricchezze
    pronte a piovermi addosso, tanto che
    se allora mi svegliassi, piangerei
    per sognare di nuovo.

                            STEFANO.

Questo prova che è un buon regno per me,
dove potrò avere la musica per niente.

                           CALIBANO.

Quando Prospero sarà ucciso.

                            STEFANO.

Lo sarà fra poco: mi rammento la tua storia.

                           TRINCULO.

Il suono si allontana: andiamogli dietro e
poi faremo il nostro affare.

                            STEFANO.

Facci la strada, Mostro, e ti seguiremo. Mi
piacerebbe di vedere il tamburino: Deve avere
una buona mano.

                           TRINCULO.

Vengo con te, Stefano.

                                                         Exeunt.

                           SCENA III.

                   Un'altra parte dell'Isola.

         Entrano ALONZO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
                  ADRIANO, FRANCESCO e altri.


                            GONZALO.

    Per nostra donna! o Sire, io più non posso
    andare innanzi: mi fan male l'ossa
    mie vecchie ed è in un vero labirinto
    che ci siamo perduti, in mezzo a strade
    diritte ed a meandri. Ho gran bisogno
    di riposare.

                            ALONZO.

                O mio vecchio fedele,
    non posso biasimarti. Anch'io son stanco
    fino a perderne i sensi. Siedi dunque
    e riposati. Quivi ogni speranza
    voglio deporre e non serbarla ancora
    presso di me quale lusingatrice.
    È affogato colui, che pur ci ha fatto
    perdere nel cercarlo e il mare irride
    alle nostre ricerche sulla terra.
    E sia! Che se ne vada!

                            ANTONIO

                                             piano a Sebastiano.

                          Io sono molto
    lieto, che sia così fuor di speranza.
    Ma non abbandonate, per un primo
    disinganno, il proposito che abbiamo
    deciso insieme di compire.

                           SEBASTIANO

                                                     ad Antonio.

                              Un'altra
    volta, anderemo a fondo.

                            ANTONIO.

                                                     come sopra.

                            E sia: stanotte
    ma non più tardi.

                                               Si ode una musica
                                               strana e solenne.

                            ALONZO.

                    Qual musica è questa?
    Udite, amici miei.

                            GONZALO.

Una musica dolce e meravigliosa.

                               Entra PROSPERO, in alto,
                               invisibile. Entrano sotto di lui
                               alcune strane forme che portano
                               una tavola apparecchiata. Danzano
                               con gentili atteggiamenti
                               di saluto e dopo aver invitato
                               il Re a mangiare se ne vanno.

                            ALONZO.

                     Ci mandi il cielo
    gli Angeli suoi custodi! Cosa sono
    quelli esseri?

                          SEBASTIANO.

                  Fantocci vivi! Adesso
    io crederò che esiston gli unicorni,
    che in Arabia v'è un albero pe'l trono
    della Fenice e che in quest'ora stessa
    la Fenice vi regna.

                            ANTONIO.

                       Io credo a entrambe
    le cose, e quando un fatto avrà bisogno
    di credenza da me venga e che è vero
    ben giurerò. Non dicon più menzogne
    ora i viaggiatori, non ostante
    che sieno condannati dagli inetti
    rimasti a casa!

                            GONZALO.

                   Ma se raccontassi
    quello che accadde, a Napoli sarei
    creduto? E se dicessi di aver visto
    tali isolani--perchè certo sono
    abitanti dell'isola--e che forme
    pur avendo di mostri, le maniere
    loro--notate--son gentili molto
    più che quelle di alcuni fra noi, anzi
    di tutti noi?

                            PROSPERO

                                                        a parte.

                 Onesto gentiluomo,
    hai detto il vero! molti dei compagni
    vostri son peggio dei demonî.

                            ALONZO.

                                Il mio
    pensier non può scordare quelle forme
    e quei gesti e quei suoni che sprovvisti
    di favella hanno espresso un eccellente
    discorso muto.

                            PROSPERO

                                                        a parte.

                  Aspettane la fine!

                           FRANCESCO.

    Sono svaniti stranamente.

                          SEBASTIANO.

                             Ebbene
    poco importa poichè le vettovaglie
    hanno lasciato dietro loro. Abbiamo
    buon appetito: non vi piacerebbe
    d'assaggiar queste cose?

                            ALONZO.

                            No.

                          SEBASTIANO.

                               Davvero,
    Sire, non c'è d'aver paura. Quando
    eravamo fanciulli, avremmo mai
    creduto che ci fosser montanari
    con un grugno di toro e con due borse
    di carne penzoloni ai loro colli?
    O che vi fosser uomini col capo
    nel torace? miracoli che pure
    potrebbe garantirci oggi un qualunque
    viaggiatore assicurato al cinque
    per uno.

                            ALONZO.

            E bene, sederò d'innanzi
    a questa mensa e pranzerò, fosse anche
    l'ultima volta. Che mi importa? Sento
    ora che tutto il meglio è già passato.
    Fratello, e voi duca, venite quivi
    a sedervi con noi.

                                  Si ode rumoreggiare il tuono:
                                  si veggono lampi. Entra ARIELE
                                  sotto la forma di un'arpia,
                                  batte le ali sulla mensa e
                                  questa sparisce rapidamente.

                            ARIELE.

    Voi siete tre uomini di peccato
    il cui destino--che governa questo
    basso mondo con quelli che vi sono--
    costrinse il mare insaziato a trarvi
    su quest'isola dove essere umano
    Abitare non deve, voi che siete
    ora indegni di vivere. Io vi ho resi
    pazzi. È con un valor simile al vostro
    che gli uomini si affogano e si appiccano
    da loro stessi!

                                       Alonzo, Sebastiano e gli
                                       altri sfoderano le spade.

                   O stolti! I miei compagni
    ed io siamo i ministri del Destino:
    gli elementi di cui le vostre spade
    son fatte, prima i venti dalla voce
    sibilante potrebbero ferire,
    o uccidere con vani colpi l'acque
    sempre in sè racchiudentisi, che all'ali
    mie togliere una sola piuma. Sono
    intangibili i miei compagni al pari
    di me: ma se potessero le vostre
    spade ferirci voi le sentireste
    troppo gravi alle vostre forze e invano
    tentereste di alzarle. Ma pensate
    --e questo è il mio messaggio--che voi tre
    da Milano il buon Prospero cacciaste
    insiem con l'innocente figlia e sopra
    il mar lo abbandonaste, su quel mare
    che del delitto vostro or vi ha pagati.
    Il potere del ciel, che se rimanda
    mai non oblia, per queste infamie vostre
    ha sollevato il mare e le costiere
    ed ogni viva creatura contro
    la vostra pace. Alonzo, di tuo figlio
    ti hanno privato ed ora con mia voce
    proclaman che una lenta ed incessante
    rovina, peggio d'ogni morte--almeno
    questa d'un colpo uccide--a passo a passo
    voi seguirà per ogni vostra impresa.
    Nè per salvarvi contro i loro sdegni
    che, in questa desolata isola, sopra
    di voi si verseranno, avrete scampo
    se non nel pentimento e in una vita
    pura!

                                                       Svanisce.

                            PROSPERO

                                                           da sè

    Bravo Ariele! Questa arpia
    hai ben rappresentato. Avevi, in vero,
    un aspetto vorace e in quel che hai detto
    non una delle istruzioni mie
    ti sei dimenticato. I subalterni
    miei ministri, hanno anch'essi recitato
    le loro parti con precisione
    singolare e vivezza grande. Agiscono
    ora gl'incanti e questi miei nemici
    sono presi nel laccio della loro
    demenza e sono in mio potere. Intanto
    alle lor febbri gli abbandono e torno
    dal giovin Ferdinando, che annegato
    credono, e da mia figlia a entrambi cara.

                                                           Exit.

                            GONZALO.

    Per quanto c'è di sacro al mondo, Sire,
    Perchè restate in tale abbattimento?

                            ALONZO.

    È atroce! è atroce! mi è sembrato udire
    parlare i flutti e dirmi questo e i venti
    cantar quest'altro e il tuono in suo profondo
    e cupo rombo, pronunciando il nome
    di Prospero, il peccato mio con quella
    sua voce bassa proclamare. Dunque
    è mio figlio sepolto entro la melma
    del mare? Voglio ricercarlo in fondo
    dove non giunse lo scandaglio e seco
    io giacerò nel fango!

                                                           Exit.

                          SEBASTIANO.

                          Un sol demonio
    alla volta e saprò batter le loro
    schiere!

                            ANTONIO.

            Ed io ti sarò secondo!

                                                         Exeunt.

                            GONZALO.

                                 Sono
    tutti e tre disperati! La lor grande
    colpa come veleno destinato
    ad agir molto tempo dopo, morde
    or gli spiriti loro. Ve ne prego,
    voi che avete le gambe più veloci,
    inseguiteli rapidi e cercate
    d'impedir quello che la loro furia
    può provocare.

                            ANTONIO.

                  Ve ne prego: andiamo.

                                                         Exeunt.





                          ATTO QUARTO.


                          SCENA UNICA.

               D'innanzi alla grotta di Prospero.

            Entrano PROSPERO, FERDINANDO e MIRANDA.


                           PROSPERO.

    Se vi punii con troppo aspro vigore
    quel che ne aveste in premio vi compensa,
    perchè vi ho dato qui della mia vita
    gran parte o almeno quello per cui vivo.
    Anche una volta alle tue man l'affido.
    Tutti i tormenti che subisti, io stesso
    in prova dell'amor tuo te li feci
    subire e tu mirabilmente hai dato
    degna risposta. Qui d'innanzi al cielo
    io ti confermo il mio ricco presente.
    O Ferdinando, a queste mie parole
    non sorridere: un giorno capirai
    Come ogni lode ella sorpassi e quanto
    dietro di sè la lasci.

                          FERDINANDO.

                          Io ben lo credo
    quasi oracolo.

                           PROSPERO.

                  Allora, come mio
    dono e come conquista tua, mia figlia
    prenditi. Ma se tu le romperai
    il nodo verginal prima che tutte
    le cerimonie nuziali in pieno
    e sacro rito sien compiute, dolce
    rugiada il ciel non pioverà su questa
    vostra unione a crescerla, ma il tristo
    odio e lo sdegno dallo sguardo obliquo
    e la discordia sì perfidamente
    semineranno sopra i vostri letti
    le loro velenose erbe, che entrambi
    li prenderete in odio. Or dunque bada,
    come ti accenderà la Face Imene.

                          FERDINANDO.

    Come spero l'accenderà, per colmi
    giorni ed ottima prole e lunga vita
    con un amore sempre eguale a questo.
    L'antro più cupo, l'opportunità
    più forte e la tentazion più grande
    che il nostro peggior genio possa mai
    consigliarci l'onor mio pervertendo
    nella lussuria, non potranno ch'io
    dimentichi quel giorno in cui le nozze
    dovranno celebrarsi, il giorno quando
    mi sembrerà che i raggi alti di Febo
    si sieno sciolti e che la notte avvinta
    sia di catene in basso.

                           PROSPERO.

                           Hai detto bene.
    Siediti dunque e con lei parla: è tua.
    Ariele, o gentil servo Ariele!

                                        Entra ARIELE invisibile.

                            ARIELE.

    Che vuoi, potente mio signor? Son qui.

                           PROSPERO.

    Tu ed i compagni tuoi l'ultimo vostro
    servigio avete ben compiuto: ed ora
    in altra impresa simile vi debbo
    impegnare. Conduci qui la banda
    su cui ti detti signoria: ma cerca
    di affrettarla: perchè d'innanzi agli occhi
    di questa giovin coppia debbo alcune
    vanità della mia arte mostrare.
    Io l'ho promesso ed essi ora lo attendono
    da me.

                            ARIELE.

          Subito?

                           PROSPERO.

                  In men d'un batter d'occhio.

                            ARIELE.

    Prima che possa dirsi _Vengo_ o _Vo_
    o respirar due volte e fare _oh oh_
    sulla punta dei piedi come sto,
    smorfeggiando verranno se verrò:
    mi amate sempre mio padrone? No.

                           PROSPERO.

    Caramente, o Ariel mio buono! Ed ora
    non comparir finchè non odi ch'io
    ti abbia chiamato.

                            ARIELE.

                      Bene: intendo

                                                           Exit.

                           PROSPERO.

                                   Guarda
    di non mentire, non lasciar le briglie:
    i giuramenti più tenaci, sono
    paglia se il fuoco entri nel sangue. Sii
    più continente o buona notte ai vostri
    voti!

                          FERDINANDO.

         Ve lo prometto, o mio signore.
    La bianca e fredda neve virginale
    ch'io stringo al petto, spegne entro le vene
    ogni ardore.

                           PROSPERO.

                Sta bene. E tu, Ariele,
    vieni e un rinforzo arreca. È meglio avere
    qualche spirito in più. Vieni. Le lingue
    trattenete ed aprite gli occhi. Attenti.


                    UNA RAPPRESENTAZIONE.

                          Entra IRIS.


                             IRIS.

    O Cerere feconda, lascia i tuoi vasti piani
    ricchi d'orzo, d'avena, di piselli e di grani;
    i tuoi monti ove il gregge fra l'erba atterra il muso;
    i pingui prati dove sta raccolto nel chiuso;
    le rive che l'aprile umido, al tuo comando
    di gigli e di peonie fiorisce in cima, quando
    di lor fredde ghirlande si voglion coronare
    le caste ninfe; l'ombre delle ginestre care
    all'amante tradito; le viti arrampicate
    sui pali e le tue spiagge marine, desolate
    e rocciose, ove aspiri l'aspra brezza fragrante;
    la Regina del Cielo di cui son lo stillante
    Arco e la messaggera, vuole che per un poco
    tu lasci quei soggiorni e venga in questo loco
    stesso, su questa erbosa radura a prender parte
    con sua Grazia Sovrana alle prove dell'arte.
    Con gran battito d'ale volano i suoi pavoni:
    Vieni a inchinarla, o Cerere, ricca di tutti i doni.

                            CERERE.

    Salute, o messo multicolore, che non hai
    alla sposa di Giove disobbedito mai,
    che con l'ali ranciate versi sopra i miei fiori
    benefici acquazzoni, di bene apportatori,
    e con l'azzurre punte del grande arco circondi
    le mie terre boscose e i pascoli fecondi;
    dell'orgogliosa terra, ricca ciarpa, perchè
    la Regina, fra questo verde, ti manda a me?

                             IRIS.

    Un contratto di vero amor per celebrare
    e di qualche ricchezza largamente dotare
    una coppia di amanti beati.

                            CERERE.

                               Dimmi, allora,
    o grande arco del cielo, se mai la tua signora
    seguono, a farle omaggio, Venere con suo figlio.
    Dal giorno in cui per loro tenebroso consiglio
    mia figlia si ritrasse nel regno inesplorato
    di Dite, l'amicizia ho per sempre lasciato
    della madre e del cieco fanciullo scandaloso.

                             IRIS.

    Non temere: ho incontrato la Dea nel nuvoloso
    regno di Pafo e il figlio con lei: credean fra tanto
    d'aver lanciato un qualche libidinoso incanto
    su questi amanti che hanno fra loro stabilito
    di non compier del letto nuziale alcun rito
    pria che Imene abbia acceso la face. Ma fu invano!
    se n'è andata la ganza di Marte e quel suo vano
    fanciullo ha rotto l'arco ed anche i dardi e giura
    che sarà d'ora innanzi una pia creatura
    e coi passeri solo scherzerà.

                            CERERE.

                                 La Regina
    Giunone--la conosco dal passo--si avvicina.

                                                  Entra GIUNONE.

                            GIUNONE.

    Salute alla opulenta sorella! Or meco vieni
    a render questa coppia ricca di tutti i beni
    e di onorata prole.

                                                          Canto.

        _Ricchezze, onori, nozze beate
        e figliolanze continuate
        gioie ad ogni ora sieno per voi,
        fa questo voto Giunone a voi._

                            CERERE.

        _Messi abbondanti, pingui terreni
        granai ed aie pur sempre pieni
        viti coi grappoli rigonfi e buoni
        alberi chini per molti doni,
        la primavera rechi ventura
        ad ogni fine di mietitura,
        miserie ed ansie lunge da voi,
        fa questo voto Cerere a voi._

                          FERDINANDO.

    Questa è una bella visione e un molto
    armonioso incanto. Dimmi, posso
    credere che sien spiriti?

                           PROSPERO.

                             Son spiriti
    che dai confini loro ho qui costretti
    per virtù di mia arte a recitare
    queste mie fantasie.

                          FERDINANDO.

                        Lascia ch'io viva
    pur sempre qui. Così mirabil padre
    e tal moglie faran di questo luogo
    un Paradiso.

                                     Cerere e Giunone si parlano
                                     tra loro e spediscono
                                     Iris a recare un messaggio.

                           PROSPERO.

                Taci, ora: Giunone
    e Cerere bisbigliano tra loro
    e v'è qualche altra cosa. Fa' silenzio
    o il loro dire perderemo.

                             IRIS.

    O voi, Ninfe, chiamate Naiadi dei correnti
    rivi, di giunchi cinte, dagli sguardi innocenti
    lasciate i vostri ondosi canali e fra le buone
    erbe giungete tutte: ve l'ordina Giunone.
    Venite, o caste Ninfe, non bisogna tardare,
    un contratto d'amore dobbiamo celebrare.

                                           Entrano alcune NINFE.

    Mietitori riarsi dall'agosto opprimente
    lasciate i vostri solchi e quivi lietamente
    a far festa venite, mettendovi i cappelli
    di grossa paglia d'orzo e in giocondi drappelli
    unitevi alle ninfe qui presenti e una danza
    intrecciate secondo la villereccia usanza.

                                Entrano alcuni MIETITORI e si
                                uniscono con le NINFE danzando
                                una danza piena di grazia. Prima
                                che questa finisca, PROSPERO
                                si alza in piedi di un tratto e
                                parla loro. Dopo le sue parole
                                essi vaniscono in cielo con uno
                                strano, basso e confuso rumore.

                            PROSPERO

                                                          da sè.

                               Avevo
    obliato l'ignobile congiura
    del bruto Calibano e dei compagni
    suoi contro la mia vita. È quasi giunto
    il tempo stabilito al loro inganno.

                                      Rivolgendosi agli spiriti.

    Bene, o spiriti, andate ora, non più.

                           FERDINANDO

                                                      a Miranda.

    È strano il padre vostro, è in preda a qualche
    emozion che lo commuove.

                            MIRANDA.

                            Mai
    fino ad oggi l'ho visto da una tale
    collera preso.

                           PROSPERO.

    Il vostro volto, o figlio,
    reca il riflesso di un interno affanno
    come se foste spaventato. Siate
    tranquillo. Sono terminati i nostri
    divertimenti. Erano quelli attori--come
    ho già detto--spiriti ed ormai
    svanirono nell'aria, nella lieve
    aria. Non altrimenti, gli edifici
    senza base di questa visione,
    le torri dalle nubi incoronate,
    i palazzi magnifici, i solenni
    templi e l'intero globo stesso e quanto
    dentro di sè contiene, svaniranno
    un giorno senza pur lasciare traccia
    più di quella che l'insostanziale
    vision nostra abbia lasciato. Noi
    siamo tessuti con la stessa trama
    dei sogni ed è la piccoletta vita
    nostra dal sonno circondata! Or sono,
    signore, un poco stanco ed è confuso
    questo vecchio cervello. Ve ne prego,
    andate nella mia grotta e là dentro
    riposatevi. Io voglio fare un giro
    o due, per trovar calma all'agitata
    anima mia.

                     FERDINANDO e MIRANDA.

              Ve l'auguriamo.

                           PROSPERO.

                             Vieni
    come il baleno!

                                         A Ferdinando e Miranda.

                    Grazie.

                                                         Exeunt.

                           O Ariele
    Vieni!

                            ARIELE.

          Sono presente al tuo pensiero.
    Quale è il piacere tuo?

                           PROSPERO.

                           Spirto, bisogna
    incontrar Calibano.

                            ARIELE.

                       O mio padrone,
    quando condussi Cerere, pensavo
    di parlartene, ma temetti allora
    d'irritarti, facendolo.

                           PROSPERO.

                           Ripeti:
    dove lasciasti quei marrani?

                            ARIELE.

                                Dove
    ti dissi, o mio signore. Erano tutti
    infiammati dal gran bere e sì pieni
    di coraggio che percuotevan l'aria
    se soffiasse sul loro volto e il suolo
    perchè baciava i loro piedi e sempre
    fantasticando intorno al lor disegno.
    Battuto allora ho il mio tamburo e come
    indomiti puledri hanno drizzato
    d'un subito le orecchia ed aguzzato
    gli sguardi e tese le narici quasi
    per respirar la musica ed il loro
    udito ho in tal maniera ammaliato
    che simili a vitelli si son messi
    a inseguirmi a traverso aspri roveti,
    a traverso taglienti erbe, a traverso
    spine che le lor gambe traballanti
    han lacerato. Gli ho lasciati al fine
    nel botro pien di fango oltre la vostra
    grotta e quivi affondavan fino al mento
    sì che il putrido lago per i piedi
    parea tenerli.

                           PROSPERO.

                  Hai fatto bene, o mio
    augello! Serba ancora quella tua
    invisibile forma e quivi arreca
    l'esca, dalla mia casa, per chiappare
    quei ladri.

                            ARIELE.

               Io vado! Io vado!

                           PROSPERO.

                                Egli è un demonio,
    un demonio la cui natura mai
    potrà modificarsi e sopra il quale
    tutte le umane mie cure son state
    perse. Il suo corpo, con l'età, più brutto
    diventa e la sua mente incancrenisce.

                                          Rientra ARIELE carico
                                          di oggetti luccicanti.

    In tal maniera castigar li voglio
    fin che debban ruggire!

                                                      Ad Ariele.

                           Vieni, appendi
    quei vari oggetti sopra questa corda.

                                           Prospero e Ariele
                                           rimangono invisibili.

             Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO tutti bagnati.

                           CALIBANO.

    Piano, vi prego, che la cieca talpa
    non possa udire i nostri passi. Siamo
    vicini alla sua grotta.

                            STEFANO.

Mostro, il vostro folletto, che dicevate inoffensivo,
si è condotto con noi come un fuoco fatuo.

                           TRINCULO.

Mostro, puzzo da capo a' piedi di piscio di
cavallo: per la qual cosa il mio naso è indignatissimo!

                            STEFANO.

E anche il mio. Hai capito, mostro? Se finisco
per prendervi a noia, vedete....

                           TRINCULO.

.... siete un mostro bello e perduto.

                           CALIBANO.

                         O buon signore
    serbami ancora il tuo favore ed abbi
    pazienza: chè il premio ch'io t'ho offerto
    compenserà questo incidente: ed ora
    parla piano; ogni cosa tace quasi
    fosse la mezzanotte.

                           TRINCULO.

Già! Ma aver perduto le nostre bottiglie nel
pantano....

                            STEFANO.

È non solamente una disgrazia e un disonore,
ma bensì una perdita senza riparo.

                           TRINCULO.

Più grande del mio bagno, per me. E tutto
per colpa del vostro folletto innocuo, Mostro!

                            STEFANO.

Voglio andare a ricercare le mie bottiglie,
dovessi per questo affondare fino alle orecchia.

                           CALIBANO.

                         O mio sovrano,
    te ne prego, sii calmo. Vedi bene?
    Questo è l'ingresso della grotta: fa'
    piano ed entra; compisci il buon misfatto
    che renderà quest'isola per sempre
    tua e me stesso, Caliban, tuo schiavo.

                            STEFANO.

Dammi la mano. Comincio ad avere pensieri
di sangue.

                           TRINCULO.

O Re Stefano! o Pari! o degno Stefano. Osserva
che guardaroba c'è qui per te.

                           CALIBANO.

    Lasciali stare, sono stracci, o pazzo!

                           TRINCULO.

O oh, Mostro, noi ce ne intendiamo di stracci!
O Re Stefano!

                            STEFANO.

Lascia stare quella tunica, Trinculo: per la
mia mano, voglio quella tunica!

                           TRINCULO.

E la tua Grazia l'avrà.

                           CALIBANO.

    L'idropisia possa affogar quel pazzo!
    Cosa intendete fare, a divertirvi
    con simile bagaglio? Andiamo prima
    a compiere il delitto. Se si sveglia
    dai piedi al capo coprirà la nostra
    pelle di lividure e in bello stato
    ci ridurrà!

                            STEFANO.

Sta zitto, Mostro. Signora corda, non è quella
la mia tunica? Ora ecco la tunica sotto la corda.
Tunica, siete capace di perdere il pelo e divenire
una tunica calva.

                           TRINCULO.

Fate pure: non dispiaccia a Vostra Grazia,
noi rubiamo alla corda e al palo!

                            STEFANO.

Grazie per la spiritosaggine: eccoti un vestito,
per questo. Lo spirito non passerà mai
senza ricompensa mentre io sarò Re di questo
paese. "rubare alla corda e al palo" ecco un
bello scherzo. Eccoti un altro vestito.

                           TRINCULO.

Mostro, vieni qui. Metti un po' di pania sulle
tue dita e via con tutto il resto.

                           CALIBANO.

    Non voglio niente! Noi
    perdiamo il nostro tempo e sarem tutti
    quanti cambiati in paperi od in scimmie
    dalla fuggevol fronte mostruosa.

                            STEFANO.

Mostro: porgete le dita. Aiutateci a portar
ogni cosa dove ho nascosto il mio barile di
vino, se no vi scaccio dal mio regno. Su via,
porta questo.

                           TRINCULO.

E questo!

                            STEFANO.

E questo!

                              Si ode il rumore di una caccia.
                              Entrano diversi spiriti sotto
                              aspetto di cani e li cacciano via.
                              Prospero e Ariele gli incitano.

                           PROSPERO.

Su Montagna, su!

                            ARIELE.

Argento! Qui, Argento, qui!

                           PROSPERO.

Furia! Furia! sotto! Qui Tiranno! Senti! senti!

                                     Calibano, Stefano e
                                     Trinculo sono cacciati via.

    Corri, e comanda ai miei spirti che i loro
    membri sien torti in spasimi crudeli:
    accorcia i loro tendini con crampi
    inveterati e d'aspre lividure
    coprili sì che il lor corpo apparisca
    di leopardo o di gatto selvaggio
    più maculato.

                             ARIELE

                 Ascolta il lor ruggire!

                           PROSPERO.

    Che sien cacciati a fondo! I miei nemici
    sono a quest'ora in mio potere. Presto
    le mie fatiche avranno fine e tu
    sarai nell'aria libero. Per poco,
    seguimi ancora e rendimi servizio.

                                                         Exeunt.




                          ATTO QUINTO.


                          SCENA UNICA.

                Davanti alla grotta di Prospero.

        Entrano PROSPERO vestito con la sua veste magica
                           ed ARIELE.


                           PROSPERO.

    Ora i disegni miei giungon la meta,
    non falliscon gl'incanti, i genii tutti
    m'obbediscono e il tempo alto nel cielo
    col suo carro s'inoltra. Come è il giorno?

                            ARIELE.

    Prossimo all'ora sesta. L'ora in cui,
    o mio signor, diceste che il lavoro
    vostro cessar dovrebbe.

                           PROSPERO.

                           È ver, lo dissi,
    fino da quando volli suscitare
    la tempesta. O mio spirito, rispondi:
    Dove sta il re coi suoi compagni?

                            ARIELE.

                                    Insieme
    tutti aggruppati, come mi ordinaste
    quando gli avete abbandonati. Tutti
    sono, o signore, prigionieri dentro
    la buca della vostra grotta, d'onde
    non si potranno muover fino a quando
    non li libererete. Il Re con suo
    fratello e tutti i vostri stan da un lato
    fuori dei loro sensi, mentre gli altri
    piangon su loro pieni di tristezza
    e di dolor. Ma più d'ogni altro, quegli
    che voi chiamate il "buon signor Gonzalo".
    Le sue lacrime cadon sulla barba
    come gocce d'inverno sulla paglia
    d'una tettoia e questo vostro incanto
    sì fattamente ora li tien che quando
    li vedeste il cuor vostro diverrebbe
    più mite.

                           PROSPERO.

             E tu lo credi in vero, o spirto?

                            ARIELE.

    Lo diverrebbe il mio se fossi un uomo,
    o signore.

                           PROSPERO.

              Ed il mio lo diverrà.
    Tu che pur sei di sola aria, commosso
    fosti ai loro tormenti ed io che sono
    di una stessa natura e che ogni loro
    dolore sento acutamente, forse
    più mite non debbo essere? Se bene
    i lor grandi misfatti abbian colpito
    il mio cuore, però contro la mia
    collera una più nobile ragione
    combatte: è la virtù più grande della
    vendetta e poichè tutti or son pentiti
    non un passo più oltre il mio disegno
    avanzerà. Vola, Ariele, e rendi
    libero ognuno: io romperò l'incanto,
    renderò i sensi a tutti sì che ognuno
    ritroverà se stesso.

                            ARIELE.

                        Io vo, signore,
    a rintracciarli.

                           PROSPERO.

                    O voi elfi dei colli
    e dei ruscelli e degli stagni e delle
    caverne, e voi che sulle sabbie senza
    lasciare impronta trascorrete dietro
    Nettuno quando si ritira e innanzi
    a lui fuggite se si avanza, e voi
    gnomi che al chiar di luna disegnate
    di quei cerchi, danzando, che fan l'erba
    amara dove più non bruca il gregge,
    e voi cui solo passatempo è fare
    nascere i funghi a mezzanotte e tutti
    vi rallegrate udendo il coprifoco
    solenne, siete assai deboli spirti
    e pur col vostro aiuto il sole ardente
    nel meriggio ho oscurato ed i ribelli
    venti evocando ho spinto ad aspra guerra
    il verde mar contro l'azzurro cielo.
    Ho la folgore urlante acceso e l'alta
    quercia ho colpito con la fiamma stessa
    di Giove e i saldi promontorii ho scosso
    ed il cedro e l'abete ho capovolto.
    Le tombe al mio comando hanno svegliato
    i dormienti e per virtù di mia
    arte si sono aperte e gli han lasciati
    liberi. E pure a questo incantamento
    rinuncio e dopo che avrò ancor richiesto
    qualche celeste musica--ed è quello
    che sto facendo--per oprar sui loro
    sensi che è quanto ha perseguito il mio
    aereo inganno, romperò per sempre
    la magica bacchetta, molte braccia
    sotto terra celandola e fin dove
    ancor non è disceso lo scandaglio
    affonderò il mio libro.

                            Si ode una musica solenne. Rientra
                            ARIELE e dietro di lui ALONZO
                            che fa gesti frenetici, aiutato da
                            GONZALO. SEBASTIANO e ANTONIO
                            anch'essi farneticanti sono
                            sostenuti da FRANCESCO e da ADRIANO.
                            Tutti entrano nel cerchio tracciato
                            da Prospero e rimangono
                            presi dall'incanto. Prospero gli
                            osserva un istante, poi prosegue:

    Una solenne musica, e il più buono
    consolatore ad un insano spirto
    curino il tuo cervello or fatto inane
    e quasi nel tuo cranio arso. Restate
    qui tutti fermi per l'incantamento!
    Sacro Gonzalo, onesto uomo, i miei occhi
    quasi compagni ai tuoi lascian cadere
    le medesime gocce. Si dissolva
    l'incanto e come i raggi del mattino
    rompono il tenebrore della notte,
    scaccino, i lor rinnovellati sensi,
    ogni torpido fumo che ravvolge
    la lor mente più limpida. E tu, bravo
    Gonzalo, salvator mio solo e a questi
    fedel compagno io pagherò le tue
    grazie e con opre e con parole. Molto
    crudelmente, o Re Alonso, verso mia
    figlia e verso me usasti. Tuo fratello
    più oltre ancor nell'azion si spinse
    ed or, Sebastian, sei fortemente
    castigato e nel sangue e nella carne.
    E voi, fratello mio, che a mantenere
    l'ambizion soffocaste il rimorso
    e la natura e con Sebastiano
    --i cui tormenti son forti per questo--
    uccider volevate il vostro Re,
    io ti perdono, per quanto tu sia
    fuori della natura. I loro sensi
    cominciano a destarsi e la crescente,
    marea tra poco invaderà la spiaggia
    di lor ragione che ora giace tutta
    sporca e fangosa. Non un sol fra loro
    che pur mi guarda mi conoscerebbe.
    Ariele! Qui portami la spada
    ed il cappello dalla mia caverna.
    Mi vestirò, per presentarmi come
    son stato un tempo: il duca di Milano.
    Spirito, presto! che fra poco ancora
    avrai la libertà.

                             ARIELE

                                           cantando mentre aiuta
                                           Prospero a vestirsi.

    _Là dove l'ape sugge a sugger debbo andare
    nel campanello d'una primula a riposare
    e quando urlano i gufi mi voglio addormentare
          sul finir dell'estate allegramente
        e viver d'ora innanzi allegramente
                    allegramente
    fra le corolle pendule d'un cespuglio fiorente!_

                           PROSPERO.

    Ahi questo è il mio buon Ariel! Ti debbo
    perdere, ma sarai libero. Sì,
    Sì, sì! Ritorna intanto sulla nave
    del Re sempre invisibile e là tutti
    i marinari, sotto i boccaporti
    addormentati troverai. Soltanto
    il padrone e il nostromo essendo svegli
    qua me li condurrai. Presto, ti prego.

                            ARIELE.

    Io bevo l'aria a me d'innanzi e torno
    prima che il vostro polso abbia battuto
    due volte!

                                                           Exit.

                            GONZALO.

    Tutti gli stupori e tutti
    i tormenti e le angosce ed i terrori
    sono qui radunati. Che un potere
    celeste, ora ci guidi pur da queste
    spaventose contrade!

                           PROSPERO.

                        Guarda, o Sire:
    Prospero il duca espulso di Milano.
    Per mostrarti che quei che ora ti parla
    è un principe vivente, ecco io ti abbraccio
    e a te, come ai compagni tuoi dal cuore
    v'auguro il benvenuto.

                            ALONZO.

                          Io non so dire
    se tu sia quello, o se non sei più tosto
    qualche incantato spirito, che debba
    trarmi in inganno anche una volta come
    già lo fui poco fa. Ti batte il polso
    qual di carne e di sangue e fin da quando
    ti ho visto, sento indebolirsi il grave
    tormento del mio spirito, che--temo--
    sia da follia percosso. Tutto questo
    se non è finzion, certo promette
    una assai strana storia. Il tuo ducato
    io ti rendo e il perdon chiedo al mio fallo.
    Ma come mai Prospero è vivo e come
    sì trova qui?

                            PROSPERO

                                                      a Gonzalo.

                 Prima, o nobile amico,
    lascia che abbracci la vecchiezza tua
    di cui nessun può misurar l'onore
    nè limitarlo.

                            GONZALO.

                 Non potrei giurare
    che tutto questo sia pur vero o falso.

                           PROSPERO.

    Ancor gustate qualche leccornia
    di quest'isola, quale non vi lascia
    le cose vere scerner dalle false.
    Benvenuti voi tutti, amici miei!

                                Piano a Sebastiano e ad Antonio.

    In quanto a voi, bel paio di messeri,
    potrei--se lo volessi--il guardo irato
    di sua altezza su voi volgere e quali
    traditori svelarvi. Per adesso
    non dirò nulla.

                           SEBASTIANO

                                                          da sè.

                    È il diavolo che parla
    in lui!

                           PROSPERO.

           No. Ma per voi degno signore
    che non posso chiamar fratello senza
    infettarmi la bocca, io ti perdono
    delle più gravi colpe: tutte quante.
    E il mio ducato ti richieggo, pure
    conoscendo che rendermelo devi.

                            ALONZO.

    Se Prospero tu sei, dacci notizie
    di tua salvezza e come ci hai trovati
    qui tutti, quando or fan tre ore appena
    naufragammo sopra questa spiaggia
    dove perdetti--come è acuto il male
    di un tal ricordo!--il figlio mio diletto
    Ferdinando.

                           PROSPERO.

               Ne son dolente, o Sire.

                            ALONZO.

    La perdita è senza riparo e dice
    la pazienza ch'è fuor d'ogni sua
    cura.

                           PROSPERO.

         Invece mi par che non abbiate
    l'aiuto suo richiesto, poi che il dolce
    favor mi presta di sovrano aiuto
    in una eguale perdita e mi accorda
    il riposo.

                            ALONZO.

              Una tal perdita voi?

                           PROSPERO.

    Tanto grande per me, quanto recente
    e contro cui, per sopportarla ho mezzi
    più deboli di quelli che potete
    invocare a conforto vostro: ho perso
    la figlia mia.
                
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