MIRANDA.
Ed ecco
la mia con tutto il core in essa. Ed ora
addio per poco.
FERDINANDO.
Mille e mille dolci
cose!
Exeunt da vie diverse.
PROSPERO.
Certo, non posso esser sì lieto
quanto lo sono loro due colpiti
da egual stupore in uno stesso tempo:
ma il mio contento è grande quanto più
essere non potrebbe. Al libro mio
ritornerò, che prima della cena
molto da oprar mi resta.
Exit.
SCENA II.
Un'altra parte dell'isola.
Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO che reca
una bottiglia.
STEFANO.
Non mi seccare: quando il barile sarà vuoto
beveremo l'acqua: ma non una gocciola prima.
Per conseguenza: fermi e all'abbordaggio. Servo-mostro:
bevi alla mia salute.
TRINCULO.
Servo-mostro! La pazzia di quest'isola! Dicono
che non abbia che cinque abitanti e siamo
in tre: se gli altri due hanno delle zucche come
le nostre, addio stato!
STEFANO.
Bevi, servo-mostro, te l'ordino io. Hai quasi
gli occhi nella testa.
Calibano beve.
TRINCULO.
E dove vorresti che gli avesse? Sarebbe,
da vero, un bel mostro se gli avesse sulla coda.
STEFANO.
Il mio mostro-domestico ha affogato la sua
lingua nel vino. In quanto a me il mare non
mi potrebbe affogare: prima di toccare la spiaggia
ho notato trentacinque leghe in lungo e in
largo, quanto è vera la luce! Tu sarai il mio
tenente-mostro, oppure il mio alfiere.
TRINCULO.
Meglio il vostro tenente: non può essere un
alfiere.
STEFANO.
Vogliamo correre, _Monsieur_ Mostro?
TRINCULO.
Nè correre nè andare al passo: vi accuccerete
come cani e non saprete dire nè meno
una parola.
STEFANO.
Parla almeno una volta in vita tua, mio bel
vitello, se sei un vitello davvero!
CALIBANO.
Come stai, Signoria? Lascia ch'io lecchi
le tue scarpe. Costui, non vo' servirlo:
egli non è valente.
TRINCULO.
Tu mentisci, o mostro ignorante: mi sento
capace di fare ai pugni con uno sbirro. Ma,
dimmi un poco, pesce svergognato, un uomo
che ha bevuto tanto vino quanto ne ho bevuto
io può essere un codardo? Vuoi proprio dirci
una mostruosa bugia, tu che sei mezzo pesce
e mezzo mostro?
CALIBANO.
Ahimè, si burla
di me? Lo lascerai dire, o signore?
TRINCULO.
Ti ha chiamato _signore_: si è mai visto un
mostro così ingenuo?
CALIBANO.
Ahimè, di nuovo, ahimè: mordilo fino
a che ne muoia, te ne prego.
STEFANO.
Trinculo, cerca di aver in bocca una buona
lingua, se non vuoi conoscere il primo albero
come ribelle! Il povero mostro è mio suddito
e io non permetterò che sia insultato.
CALIBANO.
Grazie,
mio nobile signore. Vuoi tu ancora
udire quello che ti ho già narrato?
STEFANO.
Ma certo: mettiti in ginocchio e ripeti la
tua storia. Starò in piedi, con Trinculo, ad
ascoltarti.
Entra ARIELE invisibile.
CALIBANO.
Come ti ho detto,
son sottomesso ad un tiranno, mago,
che per l'incanto delle sue malie
di quest'isola mia m'ha derubato.
ARIELE.
Tu mentisci.
CALIBANO.
Mentisci tu, pagliaccio
di uno scimmione, tu! Vorrei che il mio
valoroso signor ti sterminasse.
Io non mentisco.
STEFANO.
Trinculo, se lo interrompi un'altra volta, ti
farò saltare qualche dente con questa mano.
TRINCULO.
Ma se non ho detto nulla!
STEFANO.
Zitto dunque e non una parola.
A Calibano.
Tira avanti.
CALIBANO.
Con le sue malie
mi ha rubato quest'isola, dicevo
me l'ha rubata. Se la tua grandezza
vuol di lui vendicarmi--io so che osarlo
tu puoi, ma non costui....
STEFANO.
Questo è vero.
CALIBANO.
Sarai signore
di tutto quanto ed io ti servirò.
STEFANO.
E come si potrà fare? Mi ci puoi condurre tu?
CALIBANO.
Sì, sì, signore mio: mentre ch'ei dorme
te lo farò vedere e nella sua
testa potrai ben conficcargli un chiodo.
ARIELE.
Tu mentisci: non lo puoi fare.
CALIBANO.
Che scemo quel fantoccio! O tu pagliaccio
rognoso! Io prego vostra signoria
di picchiarlo e di togliergli la sua
bottiglia. Non potrà più bere quando
non ce l'avrà, se non l'acqua marina,
chè non gli mostrerò le fresche fonti.
STEFANO.
Trinculo, non scherzare col pericolo! Se interrompi
un'altra volta questo mostro, lascio da parte
la compassione e con le mie proprie mani ti
riduco come un baccalà.
TRINCULO.
Ma cosa ho fatto? Se non ho fatto nulla! Me
ne vado via, ecco.
STEFANO.
O non hai detto che mentiva?
ARIELE.
Tu mentisci!
STEFANO.
Ah mentisco? E tu prendi questo.
Dà un pugno a Trinculo.
Se ti è piaciuto, smentiscimi un'altra volta.
TRINCULO.
Io non ti ho smentito. Hai perduto il cervello
e le orecchie? Maledetta la vostra bottiglia, è
tutta colpa del vino e della ubriachezza. Che
la peste si prenda il vostro mostro e il diavolo
le vostre dita.
CALIBANO
ridendo.
Ah! ah! ah! ah!
STEFANO.
E ora tira avanti, col tuo racconto. Allontanati,
ti prego.
CALIBANO.
Picchialo ancora un po': fra qualche tempo
anch'io lo picchierò.
STEFANO.
Più in là: prosegui.
CALIBANO.
Ecco, come ti dissi, è suo costume
di dormire nel pomeriggio. Allora
quando i libri gli avrai tolti, potrai
schiacciargli il cranio o rompergli la testa
con un ceppo, o sventrarlo con un palo,
o tagliargli la gola con il tuo
coltello. Ma però, prima, rammenta
d'impossessarti dei suoi libri. Senza
di quelli ei non è altro che uno sciocco
al par di me, nè ha più spirito alcuno
al suo comando: l'odian tutti come
io l'odio. Ma brucia soltanto i libri
e serba i suoi belli utensili--in questo
modo li chiama--con i quali ei vuole
adornarsi una casa quando l'abbia.
Ma più di tutto pensa alla bellezza
di sua figlia: egli stesso la proclama
"senza eguali". Non ho mai visto donna
all'infuori di Sicorax, mia madre,
e di lei: ma però questa sorpassa
Sicorax, come una cosa più grande
sorpassa una più piccola.
STEFANO.
Ella è dunque
una ragazza così bella?
CALIBANO.
Certo,
signore mio: ti garantisco ch'ella
ti sarà di buon letto e ti darà
bellissimi figliuoli.
STEFANO.
Mostro! io ammazzerò quell'uomo. Sua figlia
ed io, saremo il Re e la Regina--Dio salvi
le nostre Maestà--e Trinculo e tu stesso sarete
i miei vicerè. Ti piace la congiura, Trinculo?
TRINCULO.
Eccellente.
STEFANO.
Dammi la mano: mi dispiace di averti picchiato.
Ma finchè vivi, rattieni la lingua.
CALIBANO.
Fra mezz'ora
si sarà addormentato: hai tu deciso
di ucciderlo?
STEFANO.
In parola mia d'onore.
ARIELE.
Lo dirò al mio padrone!
CALIBANO.
Tu mi rendi felice, io sono pieno
di gioia: ci vogliamo divertire.
Volete un po' riprendere quel canto
che poco fa mi insegnavate?
STEFANO.
Voglio accordarti tutto quel che mi chiedi,
mostro: tutto quanto, tutto. Vieni qua, Trinculo,
cantiamo.
_Canzoniamoli e snidiamoli,
sì, snidiamoli e canzoniamoli:
il pensiero è libero...._
CALIBANO.
Questa
non è la stessa musica.
Ariele suona la musica
col flauto e col tamburo.
STEFANO.
Cos'è quest'eco?
TRINCULO.
È l'aria della nostra canzone, suonata dal
ritratto di Nessuno.
STEFANO.
Se sei un uomo fatti vedere come sei; se
sei un diavolo fatti vedere come ti pare.
TRINCULO.
Oh, perdono per i miei peccati!
STEFANO.
Quello che muore paga tutti i suoi debiti:
io ti sfido. Aiuto!
CALIBANO.
Hai paura?
STEFANO.
No, mostro, no.
CALIBANO.
Non avere timor: l'isola è piena
di rumori e di dolci arie che danno
piacere e non fan male. Qualche volta
di ben mille strumenti odono il rombo
le orecchie mie: qualche altra volta sento
voci, che se mi sveglio dopo un lungo
sonno, mi fan riaddormentare e allora
mi sembra di veder sognando nubi
che squarciandosi mostran gran ricchezze
pronte a piovermi addosso, tanto che
se allora mi svegliassi, piangerei
per sognare di nuovo.
STEFANO.
Questo prova che è un buon regno per me,
dove potrò avere la musica per niente.
CALIBANO.
Quando Prospero sarà ucciso.
STEFANO.
Lo sarà fra poco: mi rammento la tua storia.
TRINCULO.
Il suono si allontana: andiamogli dietro e
poi faremo il nostro affare.
STEFANO.
Facci la strada, Mostro, e ti seguiremo. Mi
piacerebbe di vedere il tamburino: Deve avere
una buona mano.
TRINCULO.
Vengo con te, Stefano.
Exeunt.
SCENA III.
Un'altra parte dell'Isola.
Entrano ALONZO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
ADRIANO, FRANCESCO e altri.
GONZALO.
Per nostra donna! o Sire, io più non posso
andare innanzi: mi fan male l'ossa
mie vecchie ed è in un vero labirinto
che ci siamo perduti, in mezzo a strade
diritte ed a meandri. Ho gran bisogno
di riposare.
ALONZO.
O mio vecchio fedele,
non posso biasimarti. Anch'io son stanco
fino a perderne i sensi. Siedi dunque
e riposati. Quivi ogni speranza
voglio deporre e non serbarla ancora
presso di me quale lusingatrice.
È affogato colui, che pur ci ha fatto
perdere nel cercarlo e il mare irride
alle nostre ricerche sulla terra.
E sia! Che se ne vada!
ANTONIO
piano a Sebastiano.
Io sono molto
lieto, che sia così fuor di speranza.
Ma non abbandonate, per un primo
disinganno, il proposito che abbiamo
deciso insieme di compire.
SEBASTIANO
ad Antonio.
Un'altra
volta, anderemo a fondo.
ANTONIO.
come sopra.
E sia: stanotte
ma non più tardi.
Si ode una musica
strana e solenne.
ALONZO.
Qual musica è questa?
Udite, amici miei.
GONZALO.
Una musica dolce e meravigliosa.
Entra PROSPERO, in alto,
invisibile. Entrano sotto di lui
alcune strane forme che portano
una tavola apparecchiata. Danzano
con gentili atteggiamenti
di saluto e dopo aver invitato
il Re a mangiare se ne vanno.
ALONZO.
Ci mandi il cielo
gli Angeli suoi custodi! Cosa sono
quelli esseri?
SEBASTIANO.
Fantocci vivi! Adesso
io crederò che esiston gli unicorni,
che in Arabia v'è un albero pe'l trono
della Fenice e che in quest'ora stessa
la Fenice vi regna.
ANTONIO.
Io credo a entrambe
le cose, e quando un fatto avrà bisogno
di credenza da me venga e che è vero
ben giurerò. Non dicon più menzogne
ora i viaggiatori, non ostante
che sieno condannati dagli inetti
rimasti a casa!
GONZALO.
Ma se raccontassi
quello che accadde, a Napoli sarei
creduto? E se dicessi di aver visto
tali isolani--perchè certo sono
abitanti dell'isola--e che forme
pur avendo di mostri, le maniere
loro--notate--son gentili molto
più che quelle di alcuni fra noi, anzi
di tutti noi?
PROSPERO
a parte.
Onesto gentiluomo,
hai detto il vero! molti dei compagni
vostri son peggio dei demonî.
ALONZO.
Il mio
pensier non può scordare quelle forme
e quei gesti e quei suoni che sprovvisti
di favella hanno espresso un eccellente
discorso muto.
PROSPERO
a parte.
Aspettane la fine!
FRANCESCO.
Sono svaniti stranamente.
SEBASTIANO.
Ebbene
poco importa poichè le vettovaglie
hanno lasciato dietro loro. Abbiamo
buon appetito: non vi piacerebbe
d'assaggiar queste cose?
ALONZO.
No.
SEBASTIANO.
Davvero,
Sire, non c'è d'aver paura. Quando
eravamo fanciulli, avremmo mai
creduto che ci fosser montanari
con un grugno di toro e con due borse
di carne penzoloni ai loro colli?
O che vi fosser uomini col capo
nel torace? miracoli che pure
potrebbe garantirci oggi un qualunque
viaggiatore assicurato al cinque
per uno.
ALONZO.
E bene, sederò d'innanzi
a questa mensa e pranzerò, fosse anche
l'ultima volta. Che mi importa? Sento
ora che tutto il meglio è già passato.
Fratello, e voi duca, venite quivi
a sedervi con noi.
Si ode rumoreggiare il tuono:
si veggono lampi. Entra ARIELE
sotto la forma di un'arpia,
batte le ali sulla mensa e
questa sparisce rapidamente.
ARIELE.
Voi siete tre uomini di peccato
il cui destino--che governa questo
basso mondo con quelli che vi sono--
costrinse il mare insaziato a trarvi
su quest'isola dove essere umano
Abitare non deve, voi che siete
ora indegni di vivere. Io vi ho resi
pazzi. È con un valor simile al vostro
che gli uomini si affogano e si appiccano
da loro stessi!
Alonzo, Sebastiano e gli
altri sfoderano le spade.
O stolti! I miei compagni
ed io siamo i ministri del Destino:
gli elementi di cui le vostre spade
son fatte, prima i venti dalla voce
sibilante potrebbero ferire,
o uccidere con vani colpi l'acque
sempre in sè racchiudentisi, che all'ali
mie togliere una sola piuma. Sono
intangibili i miei compagni al pari
di me: ma se potessero le vostre
spade ferirci voi le sentireste
troppo gravi alle vostre forze e invano
tentereste di alzarle. Ma pensate
--e questo è il mio messaggio--che voi tre
da Milano il buon Prospero cacciaste
insiem con l'innocente figlia e sopra
il mar lo abbandonaste, su quel mare
che del delitto vostro or vi ha pagati.
Il potere del ciel, che se rimanda
mai non oblia, per queste infamie vostre
ha sollevato il mare e le costiere
ed ogni viva creatura contro
la vostra pace. Alonzo, di tuo figlio
ti hanno privato ed ora con mia voce
proclaman che una lenta ed incessante
rovina, peggio d'ogni morte--almeno
questa d'un colpo uccide--a passo a passo
voi seguirà per ogni vostra impresa.
Nè per salvarvi contro i loro sdegni
che, in questa desolata isola, sopra
di voi si verseranno, avrete scampo
se non nel pentimento e in una vita
pura!
Svanisce.
PROSPERO
da sè
Bravo Ariele! Questa arpia
hai ben rappresentato. Avevi, in vero,
un aspetto vorace e in quel che hai detto
non una delle istruzioni mie
ti sei dimenticato. I subalterni
miei ministri, hanno anch'essi recitato
le loro parti con precisione
singolare e vivezza grande. Agiscono
ora gl'incanti e questi miei nemici
sono presi nel laccio della loro
demenza e sono in mio potere. Intanto
alle lor febbri gli abbandono e torno
dal giovin Ferdinando, che annegato
credono, e da mia figlia a entrambi cara.
Exit.
GONZALO.
Per quanto c'è di sacro al mondo, Sire,
Perchè restate in tale abbattimento?
ALONZO.
È atroce! è atroce! mi è sembrato udire
parlare i flutti e dirmi questo e i venti
cantar quest'altro e il tuono in suo profondo
e cupo rombo, pronunciando il nome
di Prospero, il peccato mio con quella
sua voce bassa proclamare. Dunque
è mio figlio sepolto entro la melma
del mare? Voglio ricercarlo in fondo
dove non giunse lo scandaglio e seco
io giacerò nel fango!
Exit.
SEBASTIANO.
Un sol demonio
alla volta e saprò batter le loro
schiere!
ANTONIO.
Ed io ti sarò secondo!
Exeunt.
GONZALO.
Sono
tutti e tre disperati! La lor grande
colpa come veleno destinato
ad agir molto tempo dopo, morde
or gli spiriti loro. Ve ne prego,
voi che avete le gambe più veloci,
inseguiteli rapidi e cercate
d'impedir quello che la loro furia
può provocare.
ANTONIO.
Ve ne prego: andiamo.
Exeunt.
ATTO QUARTO.
SCENA UNICA.
D'innanzi alla grotta di Prospero.
Entrano PROSPERO, FERDINANDO e MIRANDA.
PROSPERO.
Se vi punii con troppo aspro vigore
quel che ne aveste in premio vi compensa,
perchè vi ho dato qui della mia vita
gran parte o almeno quello per cui vivo.
Anche una volta alle tue man l'affido.
Tutti i tormenti che subisti, io stesso
in prova dell'amor tuo te li feci
subire e tu mirabilmente hai dato
degna risposta. Qui d'innanzi al cielo
io ti confermo il mio ricco presente.
O Ferdinando, a queste mie parole
non sorridere: un giorno capirai
Come ogni lode ella sorpassi e quanto
dietro di sè la lasci.
FERDINANDO.
Io ben lo credo
quasi oracolo.
PROSPERO.
Allora, come mio
dono e come conquista tua, mia figlia
prenditi. Ma se tu le romperai
il nodo verginal prima che tutte
le cerimonie nuziali in pieno
e sacro rito sien compiute, dolce
rugiada il ciel non pioverà su questa
vostra unione a crescerla, ma il tristo
odio e lo sdegno dallo sguardo obliquo
e la discordia sì perfidamente
semineranno sopra i vostri letti
le loro velenose erbe, che entrambi
li prenderete in odio. Or dunque bada,
come ti accenderà la Face Imene.
FERDINANDO.
Come spero l'accenderà, per colmi
giorni ed ottima prole e lunga vita
con un amore sempre eguale a questo.
L'antro più cupo, l'opportunità
più forte e la tentazion più grande
che il nostro peggior genio possa mai
consigliarci l'onor mio pervertendo
nella lussuria, non potranno ch'io
dimentichi quel giorno in cui le nozze
dovranno celebrarsi, il giorno quando
mi sembrerà che i raggi alti di Febo
si sieno sciolti e che la notte avvinta
sia di catene in basso.
PROSPERO.
Hai detto bene.
Siediti dunque e con lei parla: è tua.
Ariele, o gentil servo Ariele!
Entra ARIELE invisibile.
ARIELE.
Che vuoi, potente mio signor? Son qui.
PROSPERO.
Tu ed i compagni tuoi l'ultimo vostro
servigio avete ben compiuto: ed ora
in altra impresa simile vi debbo
impegnare. Conduci qui la banda
su cui ti detti signoria: ma cerca
di affrettarla: perchè d'innanzi agli occhi
di questa giovin coppia debbo alcune
vanità della mia arte mostrare.
Io l'ho promesso ed essi ora lo attendono
da me.
ARIELE.
Subito?
PROSPERO.
In men d'un batter d'occhio.
ARIELE.
Prima che possa dirsi _Vengo_ o _Vo_
o respirar due volte e fare _oh oh_
sulla punta dei piedi come sto,
smorfeggiando verranno se verrò:
mi amate sempre mio padrone? No.
PROSPERO.
Caramente, o Ariel mio buono! Ed ora
non comparir finchè non odi ch'io
ti abbia chiamato.
ARIELE.
Bene: intendo
Exit.
PROSPERO.
Guarda
di non mentire, non lasciar le briglie:
i giuramenti più tenaci, sono
paglia se il fuoco entri nel sangue. Sii
più continente o buona notte ai vostri
voti!
FERDINANDO.
Ve lo prometto, o mio signore.
La bianca e fredda neve virginale
ch'io stringo al petto, spegne entro le vene
ogni ardore.
PROSPERO.
Sta bene. E tu, Ariele,
vieni e un rinforzo arreca. È meglio avere
qualche spirito in più. Vieni. Le lingue
trattenete ed aprite gli occhi. Attenti.
UNA RAPPRESENTAZIONE.
Entra IRIS.
IRIS.
O Cerere feconda, lascia i tuoi vasti piani
ricchi d'orzo, d'avena, di piselli e di grani;
i tuoi monti ove il gregge fra l'erba atterra il muso;
i pingui prati dove sta raccolto nel chiuso;
le rive che l'aprile umido, al tuo comando
di gigli e di peonie fiorisce in cima, quando
di lor fredde ghirlande si voglion coronare
le caste ninfe; l'ombre delle ginestre care
all'amante tradito; le viti arrampicate
sui pali e le tue spiagge marine, desolate
e rocciose, ove aspiri l'aspra brezza fragrante;
la Regina del Cielo di cui son lo stillante
Arco e la messaggera, vuole che per un poco
tu lasci quei soggiorni e venga in questo loco
stesso, su questa erbosa radura a prender parte
con sua Grazia Sovrana alle prove dell'arte.
Con gran battito d'ale volano i suoi pavoni:
Vieni a inchinarla, o Cerere, ricca di tutti i doni.
CERERE.
Salute, o messo multicolore, che non hai
alla sposa di Giove disobbedito mai,
che con l'ali ranciate versi sopra i miei fiori
benefici acquazzoni, di bene apportatori,
e con l'azzurre punte del grande arco circondi
le mie terre boscose e i pascoli fecondi;
dell'orgogliosa terra, ricca ciarpa, perchè
la Regina, fra questo verde, ti manda a me?
IRIS.
Un contratto di vero amor per celebrare
e di qualche ricchezza largamente dotare
una coppia di amanti beati.
CERERE.
Dimmi, allora,
o grande arco del cielo, se mai la tua signora
seguono, a farle omaggio, Venere con suo figlio.
Dal giorno in cui per loro tenebroso consiglio
mia figlia si ritrasse nel regno inesplorato
di Dite, l'amicizia ho per sempre lasciato
della madre e del cieco fanciullo scandaloso.
IRIS.
Non temere: ho incontrato la Dea nel nuvoloso
regno di Pafo e il figlio con lei: credean fra tanto
d'aver lanciato un qualche libidinoso incanto
su questi amanti che hanno fra loro stabilito
di non compier del letto nuziale alcun rito
pria che Imene abbia acceso la face. Ma fu invano!
se n'è andata la ganza di Marte e quel suo vano
fanciullo ha rotto l'arco ed anche i dardi e giura
che sarà d'ora innanzi una pia creatura
e coi passeri solo scherzerà.
CERERE.
La Regina
Giunone--la conosco dal passo--si avvicina.
Entra GIUNONE.
GIUNONE.
Salute alla opulenta sorella! Or meco vieni
a render questa coppia ricca di tutti i beni
e di onorata prole.
Canto.
_Ricchezze, onori, nozze beate
e figliolanze continuate
gioie ad ogni ora sieno per voi,
fa questo voto Giunone a voi._
CERERE.
_Messi abbondanti, pingui terreni
granai ed aie pur sempre pieni
viti coi grappoli rigonfi e buoni
alberi chini per molti doni,
la primavera rechi ventura
ad ogni fine di mietitura,
miserie ed ansie lunge da voi,
fa questo voto Cerere a voi._
FERDINANDO.
Questa è una bella visione e un molto
armonioso incanto. Dimmi, posso
credere che sien spiriti?
PROSPERO.
Son spiriti
che dai confini loro ho qui costretti
per virtù di mia arte a recitare
queste mie fantasie.
FERDINANDO.
Lascia ch'io viva
pur sempre qui. Così mirabil padre
e tal moglie faran di questo luogo
un Paradiso.
Cerere e Giunone si parlano
tra loro e spediscono
Iris a recare un messaggio.
PROSPERO.
Taci, ora: Giunone
e Cerere bisbigliano tra loro
e v'è qualche altra cosa. Fa' silenzio
o il loro dire perderemo.
IRIS.
O voi, Ninfe, chiamate Naiadi dei correnti
rivi, di giunchi cinte, dagli sguardi innocenti
lasciate i vostri ondosi canali e fra le buone
erbe giungete tutte: ve l'ordina Giunone.
Venite, o caste Ninfe, non bisogna tardare,
un contratto d'amore dobbiamo celebrare.
Entrano alcune NINFE.
Mietitori riarsi dall'agosto opprimente
lasciate i vostri solchi e quivi lietamente
a far festa venite, mettendovi i cappelli
di grossa paglia d'orzo e in giocondi drappelli
unitevi alle ninfe qui presenti e una danza
intrecciate secondo la villereccia usanza.
Entrano alcuni MIETITORI e si
uniscono con le NINFE danzando
una danza piena di grazia. Prima
che questa finisca, PROSPERO
si alza in piedi di un tratto e
parla loro. Dopo le sue parole
essi vaniscono in cielo con uno
strano, basso e confuso rumore.
PROSPERO
da sè.
Avevo
obliato l'ignobile congiura
del bruto Calibano e dei compagni
suoi contro la mia vita. È quasi giunto
il tempo stabilito al loro inganno.
Rivolgendosi agli spiriti.
Bene, o spiriti, andate ora, non più.
FERDINANDO
a Miranda.
È strano il padre vostro, è in preda a qualche
emozion che lo commuove.
MIRANDA.
Mai
fino ad oggi l'ho visto da una tale
collera preso.
PROSPERO.
Il vostro volto, o figlio,
reca il riflesso di un interno affanno
come se foste spaventato. Siate
tranquillo. Sono terminati i nostri
divertimenti. Erano quelli attori--come
ho già detto--spiriti ed ormai
svanirono nell'aria, nella lieve
aria. Non altrimenti, gli edifici
senza base di questa visione,
le torri dalle nubi incoronate,
i palazzi magnifici, i solenni
templi e l'intero globo stesso e quanto
dentro di sè contiene, svaniranno
un giorno senza pur lasciare traccia
più di quella che l'insostanziale
vision nostra abbia lasciato. Noi
siamo tessuti con la stessa trama
dei sogni ed è la piccoletta vita
nostra dal sonno circondata! Or sono,
signore, un poco stanco ed è confuso
questo vecchio cervello. Ve ne prego,
andate nella mia grotta e là dentro
riposatevi. Io voglio fare un giro
o due, per trovar calma all'agitata
anima mia.
FERDINANDO e MIRANDA.
Ve l'auguriamo.
PROSPERO.
Vieni
come il baleno!
A Ferdinando e Miranda.
Grazie.
Exeunt.
O Ariele
Vieni!
ARIELE.
Sono presente al tuo pensiero.
Quale è il piacere tuo?
PROSPERO.
Spirto, bisogna
incontrar Calibano.
ARIELE.
O mio padrone,
quando condussi Cerere, pensavo
di parlartene, ma temetti allora
d'irritarti, facendolo.
PROSPERO.
Ripeti:
dove lasciasti quei marrani?
ARIELE.
Dove
ti dissi, o mio signore. Erano tutti
infiammati dal gran bere e sì pieni
di coraggio che percuotevan l'aria
se soffiasse sul loro volto e il suolo
perchè baciava i loro piedi e sempre
fantasticando intorno al lor disegno.
Battuto allora ho il mio tamburo e come
indomiti puledri hanno drizzato
d'un subito le orecchia ed aguzzato
gli sguardi e tese le narici quasi
per respirar la musica ed il loro
udito ho in tal maniera ammaliato
che simili a vitelli si son messi
a inseguirmi a traverso aspri roveti,
a traverso taglienti erbe, a traverso
spine che le lor gambe traballanti
han lacerato. Gli ho lasciati al fine
nel botro pien di fango oltre la vostra
grotta e quivi affondavan fino al mento
sì che il putrido lago per i piedi
parea tenerli.
PROSPERO.
Hai fatto bene, o mio
augello! Serba ancora quella tua
invisibile forma e quivi arreca
l'esca, dalla mia casa, per chiappare
quei ladri.
ARIELE.
Io vado! Io vado!
PROSPERO.
Egli è un demonio,
un demonio la cui natura mai
potrà modificarsi e sopra il quale
tutte le umane mie cure son state
perse. Il suo corpo, con l'età, più brutto
diventa e la sua mente incancrenisce.
Rientra ARIELE carico
di oggetti luccicanti.
In tal maniera castigar li voglio
fin che debban ruggire!
Ad Ariele.
Vieni, appendi
quei vari oggetti sopra questa corda.
Prospero e Ariele
rimangono invisibili.
Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO tutti bagnati.
CALIBANO.
Piano, vi prego, che la cieca talpa
non possa udire i nostri passi. Siamo
vicini alla sua grotta.
STEFANO.
Mostro, il vostro folletto, che dicevate inoffensivo,
si è condotto con noi come un fuoco fatuo.
TRINCULO.
Mostro, puzzo da capo a' piedi di piscio di
cavallo: per la qual cosa il mio naso è indignatissimo!
STEFANO.
E anche il mio. Hai capito, mostro? Se finisco
per prendervi a noia, vedete....
TRINCULO.
.... siete un mostro bello e perduto.
CALIBANO.
O buon signore
serbami ancora il tuo favore ed abbi
pazienza: chè il premio ch'io t'ho offerto
compenserà questo incidente: ed ora
parla piano; ogni cosa tace quasi
fosse la mezzanotte.
TRINCULO.
Già! Ma aver perduto le nostre bottiglie nel
pantano....
STEFANO.
È non solamente una disgrazia e un disonore,
ma bensì una perdita senza riparo.
TRINCULO.
Più grande del mio bagno, per me. E tutto
per colpa del vostro folletto innocuo, Mostro!
STEFANO.
Voglio andare a ricercare le mie bottiglie,
dovessi per questo affondare fino alle orecchia.
CALIBANO.
O mio sovrano,
te ne prego, sii calmo. Vedi bene?
Questo è l'ingresso della grotta: fa'
piano ed entra; compisci il buon misfatto
che renderà quest'isola per sempre
tua e me stesso, Caliban, tuo schiavo.
STEFANO.
Dammi la mano. Comincio ad avere pensieri
di sangue.
TRINCULO.
O Re Stefano! o Pari! o degno Stefano. Osserva
che guardaroba c'è qui per te.
CALIBANO.
Lasciali stare, sono stracci, o pazzo!
TRINCULO.
O oh, Mostro, noi ce ne intendiamo di stracci!
O Re Stefano!
STEFANO.
Lascia stare quella tunica, Trinculo: per la
mia mano, voglio quella tunica!
TRINCULO.
E la tua Grazia l'avrà.
CALIBANO.
L'idropisia possa affogar quel pazzo!
Cosa intendete fare, a divertirvi
con simile bagaglio? Andiamo prima
a compiere il delitto. Se si sveglia
dai piedi al capo coprirà la nostra
pelle di lividure e in bello stato
ci ridurrà!
STEFANO.
Sta zitto, Mostro. Signora corda, non è quella
la mia tunica? Ora ecco la tunica sotto la corda.
Tunica, siete capace di perdere il pelo e divenire
una tunica calva.
TRINCULO.
Fate pure: non dispiaccia a Vostra Grazia,
noi rubiamo alla corda e al palo!
STEFANO.
Grazie per la spiritosaggine: eccoti un vestito,
per questo. Lo spirito non passerà mai
senza ricompensa mentre io sarò Re di questo
paese. "rubare alla corda e al palo" ecco un
bello scherzo. Eccoti un altro vestito.
TRINCULO.
Mostro, vieni qui. Metti un po' di pania sulle
tue dita e via con tutto il resto.
CALIBANO.
Non voglio niente! Noi
perdiamo il nostro tempo e sarem tutti
quanti cambiati in paperi od in scimmie
dalla fuggevol fronte mostruosa.
STEFANO.
Mostro: porgete le dita. Aiutateci a portar
ogni cosa dove ho nascosto il mio barile di
vino, se no vi scaccio dal mio regno. Su via,
porta questo.
TRINCULO.
E questo!
STEFANO.
E questo!
Si ode il rumore di una caccia.
Entrano diversi spiriti sotto
aspetto di cani e li cacciano via.
Prospero e Ariele gli incitano.
PROSPERO.
Su Montagna, su!
ARIELE.
Argento! Qui, Argento, qui!
PROSPERO.
Furia! Furia! sotto! Qui Tiranno! Senti! senti!
Calibano, Stefano e
Trinculo sono cacciati via.
Corri, e comanda ai miei spirti che i loro
membri sien torti in spasimi crudeli:
accorcia i loro tendini con crampi
inveterati e d'aspre lividure
coprili sì che il lor corpo apparisca
di leopardo o di gatto selvaggio
più maculato.
ARIELE
Ascolta il lor ruggire!
PROSPERO.
Che sien cacciati a fondo! I miei nemici
sono a quest'ora in mio potere. Presto
le mie fatiche avranno fine e tu
sarai nell'aria libero. Per poco,
seguimi ancora e rendimi servizio.
Exeunt.
ATTO QUINTO.
SCENA UNICA.
Davanti alla grotta di Prospero.
Entrano PROSPERO vestito con la sua veste magica
ed ARIELE.
PROSPERO.
Ora i disegni miei giungon la meta,
non falliscon gl'incanti, i genii tutti
m'obbediscono e il tempo alto nel cielo
col suo carro s'inoltra. Come è il giorno?
ARIELE.
Prossimo all'ora sesta. L'ora in cui,
o mio signor, diceste che il lavoro
vostro cessar dovrebbe.
PROSPERO.
È ver, lo dissi,
fino da quando volli suscitare
la tempesta. O mio spirito, rispondi:
Dove sta il re coi suoi compagni?
ARIELE.
Insieme
tutti aggruppati, come mi ordinaste
quando gli avete abbandonati. Tutti
sono, o signore, prigionieri dentro
la buca della vostra grotta, d'onde
non si potranno muover fino a quando
non li libererete. Il Re con suo
fratello e tutti i vostri stan da un lato
fuori dei loro sensi, mentre gli altri
piangon su loro pieni di tristezza
e di dolor. Ma più d'ogni altro, quegli
che voi chiamate il "buon signor Gonzalo".
Le sue lacrime cadon sulla barba
come gocce d'inverno sulla paglia
d'una tettoia e questo vostro incanto
sì fattamente ora li tien che quando
li vedeste il cuor vostro diverrebbe
più mite.
PROSPERO.
E tu lo credi in vero, o spirto?
ARIELE.
Lo diverrebbe il mio se fossi un uomo,
o signore.
PROSPERO.
Ed il mio lo diverrà.
Tu che pur sei di sola aria, commosso
fosti ai loro tormenti ed io che sono
di una stessa natura e che ogni loro
dolore sento acutamente, forse
più mite non debbo essere? Se bene
i lor grandi misfatti abbian colpito
il mio cuore, però contro la mia
collera una più nobile ragione
combatte: è la virtù più grande della
vendetta e poichè tutti or son pentiti
non un passo più oltre il mio disegno
avanzerà. Vola, Ariele, e rendi
libero ognuno: io romperò l'incanto,
renderò i sensi a tutti sì che ognuno
ritroverà se stesso.
ARIELE.
Io vo, signore,
a rintracciarli.
PROSPERO.
O voi elfi dei colli
e dei ruscelli e degli stagni e delle
caverne, e voi che sulle sabbie senza
lasciare impronta trascorrete dietro
Nettuno quando si ritira e innanzi
a lui fuggite se si avanza, e voi
gnomi che al chiar di luna disegnate
di quei cerchi, danzando, che fan l'erba
amara dove più non bruca il gregge,
e voi cui solo passatempo è fare
nascere i funghi a mezzanotte e tutti
vi rallegrate udendo il coprifoco
solenne, siete assai deboli spirti
e pur col vostro aiuto il sole ardente
nel meriggio ho oscurato ed i ribelli
venti evocando ho spinto ad aspra guerra
il verde mar contro l'azzurro cielo.
Ho la folgore urlante acceso e l'alta
quercia ho colpito con la fiamma stessa
di Giove e i saldi promontorii ho scosso
ed il cedro e l'abete ho capovolto.
Le tombe al mio comando hanno svegliato
i dormienti e per virtù di mia
arte si sono aperte e gli han lasciati
liberi. E pure a questo incantamento
rinuncio e dopo che avrò ancor richiesto
qualche celeste musica--ed è quello
che sto facendo--per oprar sui loro
sensi che è quanto ha perseguito il mio
aereo inganno, romperò per sempre
la magica bacchetta, molte braccia
sotto terra celandola e fin dove
ancor non è disceso lo scandaglio
affonderò il mio libro.
Si ode una musica solenne. Rientra
ARIELE e dietro di lui ALONZO
che fa gesti frenetici, aiutato da
GONZALO. SEBASTIANO e ANTONIO
anch'essi farneticanti sono
sostenuti da FRANCESCO e da ADRIANO.
Tutti entrano nel cerchio tracciato
da Prospero e rimangono
presi dall'incanto. Prospero gli
osserva un istante, poi prosegue:
Una solenne musica, e il più buono
consolatore ad un insano spirto
curino il tuo cervello or fatto inane
e quasi nel tuo cranio arso. Restate
qui tutti fermi per l'incantamento!
Sacro Gonzalo, onesto uomo, i miei occhi
quasi compagni ai tuoi lascian cadere
le medesime gocce. Si dissolva
l'incanto e come i raggi del mattino
rompono il tenebrore della notte,
scaccino, i lor rinnovellati sensi,
ogni torpido fumo che ravvolge
la lor mente più limpida. E tu, bravo
Gonzalo, salvator mio solo e a questi
fedel compagno io pagherò le tue
grazie e con opre e con parole. Molto
crudelmente, o Re Alonso, verso mia
figlia e verso me usasti. Tuo fratello
più oltre ancor nell'azion si spinse
ed or, Sebastian, sei fortemente
castigato e nel sangue e nella carne.
E voi, fratello mio, che a mantenere
l'ambizion soffocaste il rimorso
e la natura e con Sebastiano
--i cui tormenti son forti per questo--
uccider volevate il vostro Re,
io ti perdono, per quanto tu sia
fuori della natura. I loro sensi
cominciano a destarsi e la crescente,
marea tra poco invaderà la spiaggia
di lor ragione che ora giace tutta
sporca e fangosa. Non un sol fra loro
che pur mi guarda mi conoscerebbe.
Ariele! Qui portami la spada
ed il cappello dalla mia caverna.
Mi vestirò, per presentarmi come
son stato un tempo: il duca di Milano.
Spirito, presto! che fra poco ancora
avrai la libertà.
ARIELE
cantando mentre aiuta
Prospero a vestirsi.
_Là dove l'ape sugge a sugger debbo andare
nel campanello d'una primula a riposare
e quando urlano i gufi mi voglio addormentare
sul finir dell'estate allegramente
e viver d'ora innanzi allegramente
allegramente
fra le corolle pendule d'un cespuglio fiorente!_
PROSPERO.
Ahi questo è il mio buon Ariel! Ti debbo
perdere, ma sarai libero. Sì,
Sì, sì! Ritorna intanto sulla nave
del Re sempre invisibile e là tutti
i marinari, sotto i boccaporti
addormentati troverai. Soltanto
il padrone e il nostromo essendo svegli
qua me li condurrai. Presto, ti prego.
ARIELE.
Io bevo l'aria a me d'innanzi e torno
prima che il vostro polso abbia battuto
due volte!
Exit.
GONZALO.
Tutti gli stupori e tutti
i tormenti e le angosce ed i terrori
sono qui radunati. Che un potere
celeste, ora ci guidi pur da queste
spaventose contrade!
PROSPERO.
Guarda, o Sire:
Prospero il duca espulso di Milano.
Per mostrarti che quei che ora ti parla
è un principe vivente, ecco io ti abbraccio
e a te, come ai compagni tuoi dal cuore
v'auguro il benvenuto.
ALONZO.
Io non so dire
se tu sia quello, o se non sei più tosto
qualche incantato spirito, che debba
trarmi in inganno anche una volta come
già lo fui poco fa. Ti batte il polso
qual di carne e di sangue e fin da quando
ti ho visto, sento indebolirsi il grave
tormento del mio spirito, che--temo--
sia da follia percosso. Tutto questo
se non è finzion, certo promette
una assai strana storia. Il tuo ducato
io ti rendo e il perdon chiedo al mio fallo.
Ma come mai Prospero è vivo e come
sì trova qui?
PROSPERO
a Gonzalo.
Prima, o nobile amico,
lascia che abbracci la vecchiezza tua
di cui nessun può misurar l'onore
nè limitarlo.
GONZALO.
Non potrei giurare
che tutto questo sia pur vero o falso.
PROSPERO.
Ancor gustate qualche leccornia
di quest'isola, quale non vi lascia
le cose vere scerner dalle false.
Benvenuti voi tutti, amici miei!
Piano a Sebastiano e ad Antonio.
In quanto a voi, bel paio di messeri,
potrei--se lo volessi--il guardo irato
di sua altezza su voi volgere e quali
traditori svelarvi. Per adesso
non dirò nulla.
SEBASTIANO
da sè.
È il diavolo che parla
in lui!
PROSPERO.
No. Ma per voi degno signore
che non posso chiamar fratello senza
infettarmi la bocca, io ti perdono
delle più gravi colpe: tutte quante.
E il mio ducato ti richieggo, pure
conoscendo che rendermelo devi.
ALONZO.
Se Prospero tu sei, dacci notizie
di tua salvezza e come ci hai trovati
qui tutti, quando or fan tre ore appena
naufragammo sopra questa spiaggia
dove perdetti--come è acuto il male
di un tal ricordo!--il figlio mio diletto
Ferdinando.
PROSPERO.
Ne son dolente, o Sire.
ALONZO.
La perdita è senza riparo e dice
la pazienza ch'è fuor d'ogni sua
cura.
PROSPERO.
Invece mi par che non abbiate
l'aiuto suo richiesto, poi che il dolce
favor mi presta di sovrano aiuto
in una eguale perdita e mi accorda
il riposo.
ALONZO.
Una tal perdita voi?
PROSPERO.
Tanto grande per me, quanto recente
e contro cui, per sopportarla ho mezzi
più deboli di quelli che potete
invocare a conforto vostro: ho perso
la figlia mia.