SHAKESPEARE
LA TEMPESTA
COMMEDIA IN 5 ATTI
NUOVA TRADUZIONE
DI
DIEGO ANGELI
FRATELLI TREVES EDITORI MILANO
1911
SHAKESPEARE.
I.
_A Emma Gramatica_
il traduttore
TEATRO
DI
GUGLIELMO SHAKESPEARE
NUOVA TRADUZIONE DI DIEGO ANGELI
LA
TEMPESTA
COMMEDIA IN 5 ATTI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1911
Riservata la proprietà letteraria
della presente traduzione.
Tip. Fratelli Treves.
TEATRO
DI
GUGLIELMO SHAKESPEARE.
Ragione dell'opera.
C'è stata un'epoca della mia vita in cui sono stato innamorato di
Titania. Io ero allora un ragazzetto appena settenne e vivevo in una
vecchia villa toscana, fra le giogaie petrose della Gonfolina e i
lecci medicei di Artimino. Ma appunto fra quelle pietre, nelle cui
fessure crescevano le linarie gialle e dentro i cui ginepri arsicci
zirlavano i tordi nei mattini di novembre, o sotto le ombre cupe
dell'antico parco dove s'intravedevano ancora gli avanzi dello
splendore d'altri tempi io ho ricercato invano la piccola regina delle
Fate con tutto il suo minuscolo corteggio di genietti invisibili.
Avevo imparato a conoscerla in un vecchio volume illustrato da uno di
quelli artisti che con lo Stoddart e col William Blake furono i
precursori di tutto l'idealismo letterario della pittura inglese.
Avevo imparato a conoscerla in quelle grandi illustrazioni, un poco
primitive, dove essa compariva sempre all'ombra dei tassobarbassi
vellosi o delle fragole gigantesche, mentre sopra ogni stelo d'erba si
cullava maliziosamente il piccolo «Cobweb» o l'inafferrabile «Pea's
Blossom», mentre Puck dall'alto di un cespuglio vigilava se Oberon non
si avvicinasse. Nella grande stanza deserta, il sole d'agosto entrava
a fiotti dalle vetrate senza tende, e gli armadii intorno sapevano di
resina, e i mosconi ronzavano contro i cristalli mentre lo stridio non
interrotto delle cicale sembrava arrecare su dalla valle il saluto
trionfale della terra feconda. Nella calma di quei pomeriggi estivi,
mentre tutta la casa dormiva nella siesta quotidiana, io sfogliavo il
vecchio volume trovato nella biblioteca paterna e imparavo a conoscere
Caliban, punzecchiato dagli spiriti maligni di Prospero, e il cane
bizzarro di Speed, e i cervi che scendevano ad abbeverarsi lungo il
ruscello nella foresta delle Ardenne dove il vecchio duca esiliato
ascoltava le bizzarrie filosofiche di messer Giacomo e i sospiri
amorosi di Rosalinda. Ma sopra tutti era Titania quella che attirava
il mio spirito infantile, Titania con le sue chiome disciolte, coi
suoi occhi attoniti, con le sue collane di corolle fiorite e con la
sua tenerezza per il bel somarello dalle lunghe orecchie pelose. Così
che molte volte io mi son ritrovato, su per gli scopeti odorosi di
funghi di Artimino o fra i pinastri di Villa Campi, a cercare
timorosamente in ogni campanella d'oro di tassobarbasso e in ogni
calice azzurro di fanciullaccia se non si nascondesse una di quelle
fate misteriose che andavano di notte ad appendere goccie di rugiada
sui fiori della loro regina.
Questa è stata la mia prima visione del mondo shekspiriano e se più
tardi ho cercato altre cose nei suoi volumi e ho trovato altre
emozioni fra i suoi eroi, nessuna certo è stata così pura e così
spontanea come quella di un amore infantile, nato nel tedio delle ore
di studio, dentro una grande villa toscana sui colli di Signa, arsi
dall'estate. E forse è in quel ricordo lontano che debbo ricercare il
senso quasi religioso che io ho avuto sempre per il grande poeta
inglese. Col crescere degli anni e degli studii la prima sensazione
puramente fantastica si è naturalmente modificata, ma anche oggi non
posso rileggere i versi divini del «Midsummer night's dream» senza
provare un poco l'antica nostalgia e ritrovare come in un angolo
riposto del mio cuore qualcosa dell'amore di altri tempi. Per questo
quando il Gaffuri di Bergamo mi propose di tradurgli quella divina
fantasia per una edizione italiana delle illustrazioni di Arturo
Rackham io accettai con gioia e mi accinsi al lavoro con tale un
impeto di entusiasmo che i versi della traduzione mi vennero quasi
naturalmente come in un accesso del «brevis furor» oraziano.
Pubblicato il volume io non pensavo certo a farlo seguire da altri,
quando sopravvennero due fatti nuovi che fecero nascere in me una
idea--ancora indeterminata--dell'opera a cui mi sono accinto. Il primo
fu un articolo di G. S. Gargano, sul «Marzocco» di Firenze, articolo
che oltre a parole fin troppo lusinghiere per la mia versione,
conteneva come un ringraziamento per avere con essa fatto conoscere ai
lettori italiani il capolavoro della fantasia shekspiriana nella sua
integrità; e in secondo luogo venne la rappresentazione che di essa fu
fatta dalla compagnia stabile all'Argentina di Roma, rappresentazione
che ebbe esito trionfale e che mi procurò l'onore di una lettera
dell'ambasciatore inglese sir Rennel Rodd--che è poeta tanto nobile,
quanto è sagace diplomatico--nella quale dopo di avermi detto il suo
piacere nell'aver assistito a quel trionfo del poema inglese che non
credeva possibile d'innanzi a un pubblico latino, m'incoraggiava a
proseguire e a dare agli italiani una intiera versione dell'opera
shekspiriana.
Debbo confessare che da principio l'impresa mi parve così ardua che
non osai concepirla. Ma le due voci diverse mi risuonavano
continuamente nel pensiero e mi spronavano a tentarla. L'Italia, in
fatti, non ha una vera e propria traduzione del Teatro di Guglielmo
Shakespeare. Sia in prosa che in versi i traduttori italiani, per
quanto valenti, non hanno mai avuto il coraggio di osare la semplicità
e spesso la ruvidezza shekspiriana: costretti dalla moda del tempo a
quella artificiosità ridondante che era propria della letteratura
italiana, essi hanno travisato il testo, travestendolo in uno stile
che non è lo stile del poeta inglese e spesso allontanandosene
totalmente, quando un passo oscuro e audace sembrava loro che fosse
insopportabile al pensiero italiano. D'altra parte, da che la poesia
nostra si è felicemente liberata da quelle pastoie accademiche, nessun
poeta aveva tentato di accingersi all'impresa non facile e non breve.
Il Gargano, alcuni anni or sono, aveva tentato di costituire una
società shekspiriana fra i varii letterati italiani, che si
accingessero alla desiderata versione, la quale--tra parentesi--doveva
essere in prosa e più documento letterario che lavoro d'arte. Ma il
tentativo fallì e non fu danno--io credo. Perchè un'opera di tal
genere deve essere compiuta da un unico individuo, che le dia
quell'unità e quella armonia di intendimenti e di stile senza la quale
non potrebbe riuscire degna dell'altissimo soggetto. D'altra parte,
altre nazioni avevano già risoluto il problema per opera di uno solo,
perchè non si sarebbe tentato di fare lo stesso in Italia? L'impresa è
ardua, ma lusinghiera, e a poco a poco divenne così prepotente in me
l'idea di attuarla, che decisi di accingermi al lavoro.
Nel qual lavoro io ho tentato sopra tutto la più scrupolosa fedeltà,
rispettando i metri e le rime, rispettando i concetti e le espressioni
anche là dove esse potevano sembrare meno tollerabili ad orecchi
latini. Ma Guglielmo Shakespeare è con Dante Alighieri una di quelle
forze vive della natura, da cui dobbiamo accettare tutto. D'altra,
parte, per quello che riguarda la struttura metrica dei suoi drammi o
delle sue commedie, essa ha una così profonda relazione con l'anima
dei suoi personaggi che non potrebbe esserne divisa senza grave danno.
Per questo, non solo ho lasciato la doppia forma prosastica e
poetica--come era naturale--ma nei versi ho voluto rispettare per fino
gli emistichi e quei distici rimati che quasi sempre chiudono il lungo
discorso in versi sciolti di un personaggio. E anche questa fedeltà
credo sia necessaria per rendere il pensiero shekspiriano, a punto
perchè egli è di quei poeti in cui nulla è trascurabile e in cui ogni
parola ha un significato profondo e immutabile.
Certo, ai primi passi di un'opera a cui dedicherò quanto oramai mi
resta di vita, io non mi dissimulo le difficoltà e spesso mi dimando
se veramente mi potrà bastare la forza per condurla a fine. Ma
ricordando gli esempi di altri popoli e le parole buone di chi volle
incoraggiarmi, so ritrovare la fiducia primitiva, confidando anche nei
lettori i quali vorranno perdonare le possibili manchevolezze e
incoraggiare anch'essi questo sforzo inteso a dare agl'italiani una
visione il più possibilmente precisa di quel mondo creato da uno dei
genii più alti che mai abbia onorato il pensiero umano.
_Roma, Marzo 1911._
DIEGO ANGELI.
LA TEMPESTA.
NOTA BIBLIOGRAFICA.
Se bene non si sappia precisamente la data in cui fu scritta la
_Tempesta_, pure il Malone--che è fra i più attendibili--la fa
risalire al 1612, dandole così il penultimo posto nella serie delle
produzioni shekspiriane. Ma se bene il Chalmers e il Drake spostino di
un anno questa data--l'uno facendola risalire al 1611 e al 1613
l'altro--è oramai certo che fu una delle ultime opere teatrali scritte
da Guglielmo Shakespeare. Da dove abbia tolto l'idea di questa divina
fantasia lirica, non si può stabilire con precisione. Il Warton cita
un romanzo italiano--_Aurelio e Isabella_--che fu popolarissimo in
Inghilterra verso il 1588 e nel quale per fino il personaggio
principale di Aurelio o meglio Orelio, come apparve nella versione
inglese, poteva aver suggerito la figura di Ariel. Ma quello che si
può stabilire con precisione è da dove il poeta abbia tratto la parte
descrittiva della sua commedia. In quello scorcio del secolo XVI si
pubblicarono in Inghilterra molte relazioni di viaggi, che erano
avidamente lette dal popolo. Fra questi il naufragio di Henry May alle
Isole Bermude (1598) il _Reporte of the laste voyage of Capiteine
Frobisher_ (1577) la _History of travayle of John Barbot_ (1577) e la
_True relation of the travailes of William Davies barber and surgeon_.
Questa è del 1614, ma probabilmente correva già manoscritta fra i
lettori inglesi avidi di avventure marinaresche. In tutti questi
volumi si ritrovano particolari descrittivi che coincidono con quelli
della _Tempesta_. Così nel viaggio del Frobisher è fatta parola di
_Sycorax_, una povera selvaggia che egli trovò in un'isola e che
ritenne essere una strega; e in quello del barbiere-chirurgo Davies si
parla di _Setebos_ che era una divinità adorata dai Patagoni. Inoltre
tutti quei viaggiatori asserivano che le Bermude erano isole abitate
da diavoli, da spiriti e da streghe e questa loro asserzione trovò
tanto credito che la credenza se ne propagò fino agli ultimi anni
delle guerre civili.
Quello che Guglielmo Shakespeare non potè togliere da nessun volume fu
la festevolezza, la grazia e la poesia magnifica di questo lavoro che
ottenne subito un grandissimo favore. Tanto grande che il Fletcher si
affrettò ad imitarlo con un suo _The sea voyage_ e lo imitò Sir John
Sucling coi _Gobelins_, e per fino il Milton ne trasse non poche
ispirazioni per _The mask at Ludlow Castle_. Del resto, una conferma
del grande trionfo che dovette riportare questo lavoro si ha anche in
una velenosa annotazione che il Ben Jonson fece alla sua _Bartholomew
Fair_. «Se non vi è nella sua fiera un mostro servo» egli dice «chi
può aiutarla? L'autore ha in odio di mostrare la natura spaventosa,
nelle sue commedie come colui che inventa _Racconti_, _Tempeste_ e
simili scempiaggini del genere.» Ma i lettori contemporanei si
troveranno più d'accordo col Warburton il quale osserva che «_La
Tempesta_ e il _Sogno di una notte di mezza estate_ sono i più nobili
sforzi di quella sublime e miracolosa immaginazione particolare allo
Shakespeare, che si libra oltre i limiti della natura senza perderne
il senso o--più propriamente--trascina la natura fuori di quei confini
che ella stessa si era stabiliti».
PERSONAGGI RAPPRESENTATI.
ALONZO, Re di Napoli.
SEBASTIANO, suo fratello.
PROSPERO, Duca legittimo di Milano.
ANTONIO, suo fratello, usurpatore del Ducato di Milano.
FERDINANDO, figlio del Re di Napoli.
GONZALO, vecchio e onesto consigliere del Re di Napoli.
ADRIANO }
FRANCESCO } Signori.
CALIBANO, schiavo deforme e selvaggio.
TRINCULO, buffone.
STEFANO, servo ubriacone.
Padrone della nave, Quartiermastro, Marinari.
MIRANDA, figlia di Prospero.
ARIEL, spirito aereo.
IRIDE }
CERERE }
GIUNONE } spiriti.
NINFE }
MIETITORI }
Altri spiriti al servizio di Prospero.
_La scena è a bordo di una nave sul mare,
poi in un'isola disabitata._
LA TEMPESTA
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
A bordo di una nave, sul mare. Una bufera con tuoni e fulmini.
Entrano il PADRONE della nave e il QUARTIERMASTRO.
IL PADRONE.
Mastro....
IL QUARTIERMASTRO.
Eccomi, Padrone: che c'è?
IL PADRONE.
Bene. Parla ai marinari e manovrate alla spiccia: altrimenti
andiamo tutti a fondo. Presto! presto!
Exit.
Entrano vari MARINARI.
IL QUARTIERMASTRO.
Su, cuori miei: presto, presto, cuori miei! Forza! forza!
Serrate il bompresso. Attenti al fischio del Padrone! Soffia
finchè tu non ne possa più, vento mio: finchè abbiamo
spazio!
Entrano ALONZO, FERDINANDO,
ANTONIO, SEBASTIANO, GONZALO.
ALONZO.
Bravo mastro: mi raccomando di stare attento.
Dove è il Padrone? Siate uomini!
IL QUARTIERMASTRO.
Fatemi la grazia di starvene giù, per ora!
ANTONIO.
Dov'è il Padrone, Quartiermastro?
IL QUARTIERMASTRO.
Non lo sentite? C'imbarazzate la manovra. Rimanete nelle
vostre cabine: così, aiutate la tempesta.
GONZALO.
Su, su, brav'uomo, un po' di pazienza.
IL QUARTIERMASTRO.
Quando l'avrà il mare. Via di qua! Che importa a queste
ondate il nome del Re? Alle vostre cabine! Silenzio e non
c'impicciate.
GONZALO.
Sta bene. Ma rammentati chi hai a bordo.
IL QUARTIERMASTRO.
Nessuno a cui voglia bene più che a me! Voi siete un
consigliere: se potete comandare il silenzio a questi
elementi e ricondurre la calma, non toccheremo più una
gomena. Fate uso della vostra autorità. E se non lo potete,
ringraziate il cielo di aver vissuto tanto e preparatevi
nella vostra cabina per la disgrazia presente,--se disgrazia
ha da esserci. Coraggio, ragazzi! Levatevi dai piedi, vi
dico!
Exit.
GONZALO.
Quest'uomo mi rassicura! Non ha nessun segno d'affogato
sopra di sè: il suo fisico è tutto per la forca. Serbalo per
l'impiccagione, o buona sorte! E fa che la corda del suo
destino sia la gomena della nostra salvezza: sulla nostra
c'è poco da contare! Se non è nato per finir sulla forca, il
nostro caso è disperato.
Exeunt.
Rientra il QUARTIERMASTRO.
IL QUARTIERMASTRO.
Giù l'albero di maestra! Presto! Più giù! più giù! Cerchiamo
d'incappare la vela.
Si odono grida dal di dentro.
La peste a quelli strilloni! Urlano più della tempesta e dei
nostri comandi.
Rientrano SEBASTIANO, ALONZO e GONZALO.
Da capo? Cosa venite a fare? Dobbiamo lasciare andare ogni
cosa e affogare? Volete proprio colare a fondo?
SEBASTIANO.
Un cancro alla lingua, cane bestemmiatore e senza pietà!
IL QUARTIERMASTRO.
E allora, manovrate da voi!
ANTONIO.
Alla forca, carogna, alla forca! Figlio di puttana!
insolente ciarlone! Abbiamo meno paura di te, d'affogare.
GONZALO.
Garantisco io che non affogherà: fosse pure la nave non più
forte di un guscio di noce nè più sfondata di una sfrontata
baldracca.
IL QUARTIERMASTRO.
Serrate le vele! serrate le vele! Ammainate le drizze. Di
nuovo in pieno mare: al largo.
Entrano alcuni marinari bagnati.
I MARINARI.
--Tutto è perduto!
--Preghiamo! Preghiamo!
--Tutto è perduto!
Exeunt.
IL QUARTIERMASTRO.
E che? È dunque necessario che le nostre bocche sieno
fredde?
GONZALO
Sono in preghiera il principe ed il Re.
Andiamo a unirci a loro: il caso nostro
non è diverso!
SEBASTIANO.
Non ho pazienza!
ANTONIO.
Siamo truffati delle nostre vite
da ubriaconi! Quel brigante là
dall'ampia gola! Possa tu giacere
affogato e travolto da ben dieci
maree!
GONZALO.
E pure egli morrà impiccato
se bene contro ciò giuri ogni goccia
che quanto può s'apre per inghiottirlo.
Rumori confusi dall'interno.
--Misericordia! Andiamo a fondo!
--Andiamo a fondo! Addio moglie!
--Addio figliuoli! Addio fratello!
--Si affonda! Si affonda! Si affonda!
ANTONIO.
Dobbiamo affondare col nostro Re!
Exit.
SEBASTIANO.
Dobbiamo congedarci da lui!
Exit.
GONZALO.
Darei volentieri mille iugeri di mare, per pochi metri di
nuda terra: sterpami, roveti e ogni altra cosa. Che la
volontà del cielo sia fatta! Ma io vorrei morire una morte
asciutta!
Exit.
SCENA II.
Nell'isola: d'innanzi alla grotta di Prospero.
Entrano PROSPERO e MIRANDA.
MIRANDA.
Se con vostra arte, o caro padre, avete
l'onde selvagge in tal frastuono messe
or le pacificate. Il cielo--sembra--
ardente pece pioverebbe, se
il mar salendo alla sua guancia, il fuoco
non ne cacciasse. Oh come insiem con quelli
che ho veduto soffrire, anch'io soffersi!
Un vascel valoroso--e non vi ha dubbio
che in lui non fosse qualche creatura
nobile--messo in pezzi! E quali grida
mi percossero il cuore! E son perite
quelle povere anime! Se fossi
stata una Dea possente avrei sommerso
il mare nella terra, prima che
il buon vascello esso inghiottisse insieme
con quelli che recava seco!
PROSPERO.
Calmati!
non più paura e al pietoso cuore
di' che non vi fu danno.
MIRANDA.
O triste giorno!
PROSPERO.
Non vi fu danno. Io non ho fatto nulla
che non fosse per te. Per te mio bene,
per te mia figlia che non sai chi sei
e non conosci d'onde io venga, o s'io,
io non sia meglio di Prospero, padrone
di una povera grotta e nulla più
del padre tuo.
MIRANDA.
Non ho pensato mai
di sapere altra cosa.
PROSPERO.
Il tempo è giunto
ch'io ti spieghi altra cosa. Or dunque dammi
la mano ed il mio magico mantello
or dalle spalle toglimi. Così.
Si toglie il mantello e
lo stende per terra.
Quivi si giace la mia arte. Asciuga
gli occhi e sii calma. Questa spaventosa
vision del naufragio che percosse
la virtù in te della compassione,
con la sola potenza di mia arte
comandata ho così sicuramente
che non una sola anima--che dico?--
non un solo capello di coloro
che tu udisti gridare, che vedesti
sprofondare nell'onde è andato perso.
Siediti, è giunto il giorno in cui tu devi
conoscere di più.
MIRANDA.
Spesso mi avete
cominciato a narrar quel ch'io mi fossi
ma mi avete interrotto ad una vana
mia richiesta lasciandomi, col dire:
"Basta, non è ancor tempo".
PROSPERO.
E il tempo è giunto
ed il momento ne sospinge. Tendi
l'orecchio e presta attenzione. Puoi
tu ricordare gli anni, pria che in questa
grotta fossimo giunti? Io non suppongo
che tu lo possa però che compiuti
non avevi tre anni.
MIRANDA.
E pur lo posso,
o signore.
PROSPERO.
Ma cosa? Una dimora
diversa? Altre persone? Dimmi quale
immagine il ricordo tuo rattiene.
MIRANDA.
È così lunge! Ed è quel mio ricordo
più come un sogno che una cosa vera.
Ma, dite, non avevo allora cinque
o sei donne d'intorno a me?
PROSPERO.
Ne avevi
anche di più, Miranda. Ma in che modo
tutto ciò vive nel pensiero tuo?
E cosa vedi ancora entro l'oscuro
baratro e nell'abisso alto del tempo?
Se tu ricordi cose antecedenti
al tuo giungere qui, puoi ricordare
come qui tu giungesti.
MIRANDA.
No, non posso.
PROSPERO.
Sono oramai trascorsi dodici anni,
dodici anni, Miranda! Era tuo padre
il duca di Milano e assai potente
principe.
MIRANDA.
O signor mio, non siete dunque
mio padre?
PROSPERO.
La tua mamma che fu in vero
la virtù stessa, ti dicea mia figlia
ed era certo, duca di Milano
il padre tuo. L'unica erede tu,
e non indegna principessa!
MIRANDA.
O cielo!
Qual brutto inganno quivi ci ha condotti
o benedizione è stato quello
che ci fu fatto?
PROSPERO.
L'uno e l'altra, o mia
fanciulla: per un brutto inganno, come
tu dicesti, noi qui venimmo ma
l'aiuto è stato benedetto.
MIRANDA.
Oh il cuore
mi sanguina a pensar tutte le cose
che sono ormai fuori del mio ricordo.
Ma proseguite, ve ne prego.
PROSPERO.
Il mio
fratello--era tuo zio--chiamato Antonio,
te ne supplico, ascolta, e chi potrebbe
pensare che un fratello esser potesse
così perfido? E pur dopo me stesso
nessuno amavo più di lui nel mondo.
Tanto lo amavo che in sua cura detti
tutto il mio Stato, ed era allora sopra
le Signorie la prima e il primo Duca
Prospero: in ogni dignità citato
e nelle liberali arti pur senza
paragone. Sommerso nello studio,
su mio fratello il peso del governo
tutto lasciai, sì che stranier divenni
al mio paese, assorto nei segreti
miei studii. Ma quel tuo subdolo zio....
di', mi ascolti?
MIRANDA.
Oh sì molto attentamente.
PROSPERO.
.... come ebbe appreso ad elargir le grazie
od a negarle, come seppe quale
dovea promuover quale radiare
quale rinnovellar fra creature
che furon mie o trasformarle, avendo
ambo le chiavi degli uffici e degli
ufficiali, a intonare si compiacque
tutto lo Stato in unica armonia
cara agli orecchi suoi, sì ch'egli fu
l'edera avvinta al principesco mio
tronco dal qual suggeva ogni verdura.
Ma non ascolti....
MIRANDA.
Oh buon signore, ascolto!
PROSPERO.
Sì, ascoltami, ti prego. Trascurando
sì le cure mondane e tutto intento
ai riposti misteri della mia
mente, vivevo in così gran ritiro
abbandonando ogni favore al mio
falso fratello, che indole malvagia
teneva sveglio. E quella mia fiducia
come un buon genitore, produceva
in lui tanta falsezza quanto più
essa era grande. E questa non aveva
limiti ed era una fiducia senza
confini. Essendo in tal modo signore
non solamente della mia ricchezza
ma di quel che il poter mio consentiva
di esigere, come uno che dicendo
il falso sempre, fa di sua memoria
tal peccatrice che finisce poi
col creder vera la menzogna sua,
egli credette d'esser duca e, inconscio
di una tal finzione, ogni regale
prerogativa fece sua, fin quando
l'ambizione ognor crescendo.... Ascolti?
MIRANDA.
Curerebbe la storia vostra i sordi!
PROSPERO.
Non seppe più distinguer fra la parte
ch'ei sosteneva e quegli per il quale
la sosteneva, sì che pensò al fine
d'essere di Milano l'assoluto
signore. In quanto a me dovea sembrargli
la biblioteca mia ducato grande
abbastanza, sì che mi giudicava
ormai incapace d'ogni regal cura.
Alleato--però che da sè solo
mal dominato avrebbe--con il Re
di Napoli, promisegli un tributo
ogni anno e a fargli omaggio la corona
mal sottomise a quella sua più grande,
ed il Ducato--ahi povera Milano!--
libero fino allora, rese schiavo
in un servaggio vergognoso.
MIRANDA.
Oh cielo!
PROSPERO.
Pensa alla sua condizione e a questo
avvenimento e dimmi s'egli possa
pur essermi fratello!
MIRANDA.
Peccherei
pensando mal dell'avola: cattivi
figli han recato buoni ventri.
PROSPERO.
Ed ecco
la fine. Il Re di Napoli che mi era
acerrimo nemico, prestò orecchio
alle richieste del fratello mio.
Sì che in compenso del promesso omaggio
e di non so quale tributo, fuori
del ducato mi avrebbe egli bandito
con i miei tutti e la bella Milano
con ogni onore a mio fratel ceduta.
Fu così che un esercito, di notte,
a tradimento penetrò la cinta--
e forse avea le porte di Milano
aperte Antonio--e favoriti dalle
tenebre ci cacciarono i ministri
te piangente e me stesso.
MIRANDA.
Ahimè pietà!
Non ricordando come allora piansi
ora di nuovo piangerò. Son gli occhi
costretti a ciò da un tal racconto.
PROSPERO.
Ascolta
ancora un poco e porterò il tuo spirto
agli affari che ci occupano. Senza
questi la storia mia sarebbe troppo
fuori di luogo.
MIRANDA.
Ma perchè non hanno
profittato--a distruggerci--dell'ora?
PROSPERO.
Dimanda giusta e ben doveva il mio
racconto provocarla. Essi non hanno
o cara figlia osato--così grande
era l'amore che il mio popol tutto
mi portava--segnar con sanguinosa
impronta il lor misfatto, ma abbellirlo
vollero con più bei colori. In breve,
caricati che ci ebber sopra un barco,
ci spinsero nel mare. Aveano scelto
una vecchia carcassa di battello
non attrezzato, senza vele, senza
albero, senza sarte: per istinto
l'avean già tutto abbandonato i sorci.
Quivi ci hanno imbarcati e ai nostri pianti
solo rispose il mare ed i sospiri
ci rese il vento!
MIRANDA.
Ahimè quale imbarazzo
dovetti esser per voi!
PROSPERO.
Tu, Cherubino,
fosti invece la mia salvezza. Il tuo
sorriso infuse in me come una forza
celeste e come il mare ebbi cosparso
delle più amare lacrime, un novello
cuore si fece in me, per sopportare
quel che avverrebbe.
MIRANDA.
E in che modo giungemmo
a terra?
PROSPERO.
Per divina provvidenza
un po' di cibo e un poco d'acqua che
un nobil uom di Napoli--Gonzalo,
addentro nel disegno--tutto preso
dalla sua carità volle lasciarci.
E insiem coi cibi i bei vestiarii, i ricchi
tessuti, i lini e tutto il necessario
che tanto ci ha giovato. Per sua grande
gentilezza, sapendo il molto amore
che per i libri avea, dalla mia stessa
libreria seppe sceglier quei volumi
che amavo più del mio ducato.
MIRANDA.
O possa
veder quest'uomo un giorno! Ora mi levo.
PROSPERO.
Sta' ferma: e dell'errar nostro marino
l'ultima parte ascolta. Quivi, in questa
isola siamo giunti, e quivi io stesso
fui tuo maestro e ti giovai pur tanto
quanto nessuna principessa che abbia
maggior tempo e più libero, ma certo
non il divoto precettore.
MIRANDA.
Il cielo
vi ringrazi per questo. E ora o mio
signore--ve ne supplico, è un pensiero
che non mi sa dar pace--qual ragione
aveste a suscitar tale tempesta?
PROSPERO.
Ecco: tu lo saprai. Per uno strano
evento, la munifica fortuna
or mia sola signora--ha in questa spiaggia
condotto tutti i miei nemici ed io
con la mia prescienza ho appreso come
il mio destino sottostasse ad una
ben augurante stella il cui potere
s'io non lo afferro subito si perde
ed ogni mia fortuna è fatta vana
per sempre. Or cessa con le tue dimande.
Tu sei presa dal sonno: è una propizia
stanchezza a cui tu cederai. D'altronde
so ben che non hai scelta.
MIRANDA si addormenta.
Vieni, o servo
mio, vieni! Io sono pronto. Fatti dunque
vicino, o mio Ariel. Vieni!
ARIELE.
Salute
o possente maestro, o gran signore
salute! Io venni qui per obbedire
ad ogni tuo comando: per volare,
per nuotar, per piombare in mezzo al fuoco
o galoppar sulle chiomanti nubi.
Ariele e il valor suo tutto è pronto
al voler tuo possente.
PROSPERO.
Hai suscitato
la tempesta che--o spirito--ti dissi
di suscitare?
ARIELE.
In ogni più minuto
particolare. Ho sconquassato tutta
del Re la nave, or sullo sprone alzandola
or sulla poppa e in ogni sua cabina
o sopra il ponte suscitai l'incendio.
Spesso mi son diviso ardendo in luoghi
diversi e sopra l'albero e fra mezzo
ai pennoni così distintamente
per poi di nuovo unirmi in uno. I lampi
di Giove precursori del tremendo
fulmine, non son così spessi; il fuoco,
lo scoppiettio di solforose fiamme
sembravano assediar l'alto Nettuno
e, per virtù del suo tridente, l'onde
sue piene d'ira far tremare.
PROSPERO.
O bravo
spirito! Chi potrebbe esser sì forte
e sì costante che la sua ragione
non smarrirebbe in tale inganno?
ARIELE.
Credo
non un'anima sola abbia potuto
resistere a una febbre di follia
o a non dar segni di sgomento. Tutti
--i marinari eccettuati--dentro
le spume si gettarono, la nave
con me in fiamme lasciando. Ferdinando,
il figliuolo del Re, con i capelli
irti--più che capelli erano stecchi--
a lanciarsi fu il primo e strepitava:
"L'inferno è vuoto e i démoni son qui!"
PROSPERO.
È lo Spirito mio questo! Ma dimmi:
non avveniva tutto ciò vicino
alla spiaggia?
ARIELE.
Vicino, o mio signore.
PROSPERO.
Ma son salvi, Ariel?
ARIELE.
Non un capello
si è perso e sulle vesti lor che a galla
li sorreggean, non una macchia sola.
Son più fresche di prima. Ed in quel modo
che hai comandato, nei diversi punti
dell'isola gli ho sparsi in varii gruppi.
Il figliuolo del Re trassi alla spiaggia
io stesso e lo lasciai mentre coi suoi
sospiri l'aria rinfrescava, assiso
e con le braccia in triste nodo avvinte:
così.
PROSPERO.
Ma dimmi, che facesti della
ciurma del Re e della rimanente
flotta?
ARIELE.
Quella del Re salva è nel porto:
io l'ho celata dentro la profonda
baia, dove una notte mi chiamasti
affinchè ti recassi dalle sempre
tempestose Bermude una rugiada.
I marinari sotto i boccaporti
stan rannicchiati, immersi in un gran sonno
che il mio incanto aggiungendosi alle molte
fatiche ha suscitato. E il resto della
flotta che avea disperso, ho nuovamente
unito ed ora voga sopra l'onde
mediterranee raggiungendo il porto
di Napoli, dolente tutta e certa
d'aver visto affondar del Re la nave
e quel gran principe.
PROSPERO.
O Ariele, il tuo
ufficio hai ben compiuto. Ma ancor altro
ci resta a fare. In quale ora del giorno
siamo?
ARIELE.
È trascorsa la metà.
PROSPERO.
Di due
clessidre almeno. Il tempo che ci resta
fra l'ora sesta e adesso, noi dobbiamo
sagacemente spenderlo.
ARIELE.
V'è ancora
da lavorare? Poichè tu mi dai
tante fatiche lascia ch'io rammenti
la tua promessa ancor non mantenuta.
PROSPERO.
Che c'è di nuovo, spirito bizzarro,
e che puoi dimandarmi ora?
ARIELE.
La mia
libertà!
PROSPERO.
Prima ancora che sia giunto
il tempo? Basta!
ARIELE.
Te ne prego, almeno
rammenta i degni uffici che ti ho fatto,
nè ho mai mentito nè ho sbagliato mai.
E ti ho servito senza brontolare,
senza rancori! Tu mi promettesti
di condonarmi un anno intiero.
PROSPERO.
Hai forse
dimenticato da qual mai supplizio
ti liberai?
ARIELE.
No.
PROSPERO.
Sì! Per questo credi
far grandi cose sol perchè calpesti
il fango dell'amaro abisso e scorri
sull'aspro vento settentrionale
e--per il mio servigio--entro le vene
della Terra ti chiudi allor che il gelo
la stringe tutta.
ARIELE.
Non è ver, signore!
PROSPERO.
Tu mentisci, o maligno spirto. Hai dunque
dimenticato Sicoràx, l'infame
strega che gli anni e che l'invidia al pari
di un cerchio avean ricurva? Dimmi, l'hai
dimenticata?
ARIELE.
No, signore.
PROSPERO.
L'hai
dimenticata! Ove era nata? Dimmi!
ARIELE.
In Algeri, o signore!
PROSPERO.
Ah sì? Da vero?
Ben una volta al mese è necessario
ch'io ti ripeta quel che fosti. E tu
l'hai già dimenticato. Quella strega
malvagia, Sicoràx, come tu sai
fu bandita da Algeri per delitti
innumeri e incantesimi capaci
di spaventare umano orecchio e pure
le salvaron la vita in prò di certa
sua azione. Non è vero?
ARIELE.
Sì,
o signore.
PROSPERO.
Cotesta fattucchiera
dall'occhio cispellino fu condotta
quivi col figlio e abbandonata dalla
ciurma. E tu, schiavo mio, come sovente
mi hai narrato, eri suo servo e perchè
eri uno spirto troppo delicato
per compiere le infami e obbrobriose
sue volontà, ti rifiutasti ai gravi
ordini che ti dava e allor nell'impeto
dell'implacabil ira ella ti chiuse
--di possenti ministri con l'aiuto--
nello spacco di un pino e dentro quelle
strette pareti dodici anni intieri
crudelmente restasti prigioniero.
E in questo tempo ella morì lasciando
te a gemere là dentro, con sospiri
più rapidi dei gemiti che fanno
le ruote di un molino. Allora questa
isola--se n'eccettui quel figlio
ch'ella avea partorito, un mostricciuolo
lentigginoso e degno di sua stirpe--
non era anco onorata da un'umana
forma.
ARIELE.
Sì, Calibàno, il figlio suo.
PROSPERO.
È quel che dico, spirto mentecatto!
Ed è appunto quel Calibàn che tengo
al mio servizio. Tu sai bene in quali
tormenti ti trovai. Faceano urlare
i lupi le tue grida e i furiosi
orsi a pietà muovevano. Un tormento
di dannato. E non era più presente
Sicoràx per disfar l'opera sua.
Fu l'arte mia che ben costrinse il pino
a riaprirsi e ti lasciò partire
allorchè quivi giunto io ti sentii.
ARIELE.
Grazie, o signore.
PROSPERO.
Se tu gemi ancora
io squarcerò una rovere e sì dentro
ti chiuderò nel suo nodoso ventre
che resterai ben dodici anni a urlare.
ARIELE.
Perdonami, o signore, ai tuoi comandi
obbedirò di buona grazia e tutto
farò da buono spirito.
PROSPERO.
Sta bene
e fra tre giorni ti libererò.
ARIELE.
Ecco di nuovo il mio nobil padrone!
Che debbo fare? Dimmelo, che debbo
fare?
PROSPERO.
Va' con l'aspetto di una ninfa
del mare a tutti gli occhi occulto e solo
visibile alla tua vista e alla mia.
Va': prendi questa forma e poi ritorna
così cambiato qui. Sii diligente.
ARIELE exit.
A Miranda.
Svegliati, cuore mio, svegliati, hai bene
dormito ed ora svegliati.
MIRANDA
svegliandosi.
Lo strano
vostro racconto mi assopiva.
PROSPERO.
Scuoti
quel tuo torpor. Vieni: visiteremo
Calibàno il mio schiavo che nessuna
buona parola ha mai per noi.
MIRANDA.
Signore,
è un villano costui nè mai lo veggo
volentieri.
PROSPERO.
Ma ancora non possiamo
così com'è farne di meno. Accende
il nostro fuoco, il legno spacca e in molti
uffici egli ci serve che ci sono
utili.
Olà! Su Calibàn, su schiavo!
Olà fango, rispondi!
CALIBANO
di dentro.
C'è abbastanza
legno qua dentro.
PROSPERO.
Vieni qua ti dico.
C'è ben altro da fare. Vieni dunque,
testuggine.
Rientra ARIELE: in costume, di ninfa.
O gentil vista! O mio dolce
Ariele, m'ascolta in un orecchio.
Gli parla all'orecchio.
ARIELE.
Sarà fatto, o signore.
PROSPERO.
O velenoso
schiavo che fece il diavolo all'infame
tua madre, vieni qui!
Entra CALIBANO.
CALIBANO.
Che una rugiada
malefica qual mai mia madre trasse
con la penna di un corvo da palude
putrida, cada sopra voi. Che il vento
d'Oriente v'investa e vi ricopra
di pustole ambedue!
PROSPERO.
Sta' pur sicuro
che per questo sarai stretto dai crampi
stanotte e ai fianchi avrai dolori tali
che il respiro ti tolgano. I folletti
nell'ore della notte allor che meglio
possono lavorare, i loro sforzi
rivolgeranno contro te. Sarai
coperto di punture così strette
come sono le celle d'alveare
e più cocenti che l'avesser fatte
gli aculei delle api.
CALIBANO.
Il pranzo debbo
mangiarmi! È mia quest'isola. Mia madre
Sicoràx me la dette e tu l'hai presa!
Quando giungesti qui la prima volta
mi accogliesti benigno e gran carezze
mi facesti amichevoli. Mi davi
da bere un'acqua ove spremevi bacche
e m'insegnavi il nome della grande
luce e dell'altra piccola che il giorno
e la notte rischiarano. Ed allora
io ti amavo e cercavo di mostrarti
i pregi di quest'isola: le fresche
sorgenti, le saline, gli opulenti
terreni e quelli sterili. Sia sempre
maledetto di aver fatto così.
Che le malie di Sicoràx, le vespe,
i rospi e vipistrelli su di voi
si abbattano. Però che sono il solo
vostro suddito e prima ero sovrano
di me stesso! E mi date come cuccia
quell'aspra roccia, e tutta quanta l'isola
mi togliete!
PROSPERO.
O bugiardo schiavo, i colpi
ti commuovono e non le gentilezze.
Se ben marcio tu sia, con una umana
attenzione io ti ho trattato e nella
mia stessa grotta ti ho tenuto, fino
al giorno in cui tentasti violare
l'onore di mia figlia!
CALIBANO.
Oho! lo avessi
potuto fare! Se non lo impedivi
l'isola tutta avrei ripopolato
di Calibani!
PROSPERO.
O schiavo maledetto
cui nessuna bontà lascerà impronta
chè sei capace d'ogni male! Ho avuto
pietà di te, mi sono imposto il grave
compito di farti parlare. Ogni ora
ti ho insegnato una cosa o l'altra. E quando
non sapevi, o selvaggio, disbrogliare
il tuo pensiero e mugolavi acute
strida sì come un bruto, a quelli oscuri
tuoi sentimenti ho dato una parola
che li rese palesi. Ma la tua
vile stirpe--quantunque tu imparassi--
aveva in sè tali funesti germi
che non poteano i buoni sopportarne
il contatto. È così che giustamente
ti ho chiuso in questa roccia, meritata
assai più che una carcere.
CALIBANO.
Mi avete
insegnato a parlare e ne profitto
per maledire. Che la peste rossa
vi uccida per avermi appreso il vostro
linguaggio.
PROSPERO.
Mal seme di strega, via
di qua! La legna arrecaci e sii pronto,
se mi credi, che c'è nuovo lavoro.
Scuoti le spalle, o maligno? Se mostri
trascuratezza o mal voler nel fare
quel che ti ordinerò, tutto ti voglio
torcer con vecchi crampi, empirti l'ossa
di spasimi e ruggire in tal maniera
io ti farò, che all'urla tue le belve
tremeranno!
CALIBANO.
Ti prego, no, ti prego!
A parte.
Debbo obbedire e sì potente è l'arte
sua che saprebbe Setebos, il dio
di mia madre, far servo.
PROSPERO.
Orsù, via schiavo!
Exit CALIBANO.
Rientra ARIELE invisibile, suonando
e cantando. FERDINANDO lo segue.
ARIELE
cantando.
_Su queste sabbie gialle
prendetevi per mano
dopo la riverenza
farete il baciamano.
Poi con piede leggero
--taccion l'onde ribelli--
danzate, e dolci spiriti
cantano i ritornelli.
Ascoltate! ascoltate!_
Si ode abbaiare dal di dentro.
_abbaiano i cani di guardia!_
Si ode di nuovo abbaiare.
_Ascoltate! ascoltate: si udì
lanciar Cantachiaro
il prosuntuoso suo chicchirichì!_
FERDINANDO.
Dove saranno questi canti? In cielo
o sulla terra? Io più non gli odo e pure
vigileran su qualche Dio di questa
isola. Ch'io mi segga anche una volta
e pianga anche una volta il naufragato
mio padre. Sopra l'onde furiose
mi colpì questa musica addolcendo
l'impeto loro e insieme il mio dolore
con sua dolcezza. Allora io l'ho seguita
o meglio quella mi condusse qui.
Ora è cessata. No, di nuovo ancora
ricomincia.
ARIELE
cantando.
_A ben cinque braccia nel mare
tuo padre si giace sepolto:
coralli son l'ossa,
son gli occhi due perle nel volto.
Ma niente di lui sarà vano
che per un incanto del mare
dovrà trasformarsi in qualcosa
di ricco e di strano._
_O ninfe del mare intonate
per lui, d'ora in ora il lamento._
Si ode suono di campane.
_Din-don le campane--le sento
Din-don le campane!_
Di nuovo il suono di campane.
FERDINANDO.
Quel canto di mio padre
annegato racconta. Non è cosa
mortale e non è suono che alla terra
appartenga. Or lo sento sopra me!
PROSPERO
a Miranda.
Le infrangiate cortine dei tuoi occhi
solleva e dimmi quel che vedi.
MIRANDA.
È mai
uno spirito? Come egli si guarda
tutto intorno! Credete a me, signore,
nobile forma egli ha, ma senza dubbio
è uno spirito.
PROSPERO
No, bambina, ei dorme
e mangia ad ha li stessi sensi tutti
che abbiamo noi; li stessi. Quel galante
che vedi là fuor del naufragio, quando
non fosse dal dolor battuto--il duolo
della bellezza è il cancro--tu potresti
bel giovine chiamarlo. I suoi compagni
ha perduto e qua e là tenta cercarli.
MIRANDA.
Posso chiamarlo un essere divino,
che mai di naturale ho visto tanto
nobile!
PROSPERO
da sè.
S'incamminano le cose
come l'animo mio sperava. O Spirito,
lieve Spirito! in meno di due giorni,
per questo fatto, libero sarai.
FERDINANDO.
Certo, quella è la dea che questo canto
accompagnava. I miei voti ascoltate:
posso sapere se abitate questa
isola? E mi potete dar consiglio
del come debba quivi comportarmi?
Ma la prima dimanda è questa ch'io
v'indirizzo per ultima: O portento,
siete fanciulla o no?
MIRANDA.
Non un portento,
signore, ma fanciulla certo.
FERDINANDO.
Il mio
stesso linguaggio! O cielo! E pur sarei
primo fra quelli che un linguaggio tale
parlano, se ancor fossi nel paese
dove si parla.
PROSPERO.
Come il primo? E cosa
diverresti mai tu se ti sentisse
parlare il Re di Napoli?
FERDINANDO.
Lo stesso
di quel ch'io sono, pien di meraviglia
nell'udirti di Napoli parlare.
Egli mi udiva ed è per questo ch'io
piangevo. Il Re di Napoli son io
oramai, che ho veduto con questi occhi
--d'onde non più cessò l'alta marea
delle lacrime--il padre naufragare.